Sarebbe elettrizzante come lo sono le spy-story scoprire un complotto, dietro la decisione di Danièle Nouy, il capo della vigilanza bancaria della Bce, di focalizzare anche sui portafogli investiti in derivati finanziari la prossima tornata di verifiche sulla stabilità bancaria.

Sarebbe elettrizzante scoprire che il relativo indebolimento politico di Angela Merkel abbia finalmente indotto il miope “sceriffo” creditizio europeo a prendere atto che nei bilanci delle grandi banche non sono soltanto le sofferenze nei prestiti alla clientela a creare caverne minacciose, ma anche i titoli tossici.



Sarebbe elettrizzante scoprirlo, perché la tedesca Deutsche Bank, da sola, ha più derivati di tutte le altre grandi banche europee messe insieme, è “troppo grande per fallire”, ed è l’architrave del sistema finanziario tedesco, per cui di fatto rappresenta il tappeto sotto il quale la cosiddetta locomotiva economica europea ha nascosto le scorie impresentabili dei propri successi esteriori.



Sarebbe elettrizzante se fosse vero, ma non lo è. La scelta tardiva della Bce è semplicemente la banalità della burocrazia stolida che ha finora ispirato le mosse della vigilanza della Banca centrale europea, cioè della divisione dell’istituto che, per legge, sfugge al potere razionale di Mario Draghi, presidente per l’ultimo anno, che non può quindi in alcun modo essere stato il regista – i tedeschi direbbero “il mandante” – dell’annunciata svolta della Nouy; e nemmeno può essere, dunque, il vendicatore degli anni di stress al quale è stato sottoposto, in consiglio, dagli attacchi continui della Bundesbank, ostile alla sua linea di sostegno monetario alla crescita, il Quantitative easing, l’acquisto di 60 miliardi al mese di titoli di Stato europei… che entro l’anno finirà.



Pensate che bel “plot”: la Germania egemone decide di riprendersi quel potere totale sull’Europa che ebbe con le armi usando, stavolta, il denaro; un uomo solo in trincea – è un italiano! è Draghi! – riesce a opporsi usando le poche risorse che ha: il Quantitative easing. I tedeschi e i loro sudditi mitteleuropei lo contrastano in ogni modo, ma alla fine deve cedere, non riesce più a tenere il delicato equilibrio politico nel suo consiglio d’amministrazione e annuncia la fine del piano di sostegno monetario. Pochi giorni dopo, esce dagli hangar una squadriglia di rappresaglia, la vigilanza, e contrattacca, piegando la stessa Germania che riteneva di aver vinto la partita.

Sarebbe un bel “plot”, ma è un fake. Più semplicemente, come direbbe una nonna (anzi, bisnonna): ogni tempo viene.

E il disastro gestionale della Deutsche Bank era tale da non potersi più sostenere. Il bilancio 2017 è stato in perdita per il terzo anno consecutivo, i costi raggiungono il 93% dei ricavi, Standard & Poor’s ha ufficialmente messo sotto osservazione l’istituto non escludendo un possibile downgrade. Il nuovo amministratore delegato, Christian Sewing, potrebbe essere costretto, secondo l’agenzia di rating, a effettuare “un incremento degli sforzi di ristrutturazione” e dei relativi costi. Ma soprattutto, il mercato non ci crede più: dall’inizio dell’anno il titolo DB ha perso circa un quarto del proprio valore e viaggia ora sotto quota 10 euro, meno del terribile 2009.

Gli scandali non lasciano tregua: sul caso Euribor (aver manipolato uno dei tassi-guida dei mutui variabili) l’istituto è coinvolto al fianco della Barclays e dallo scoppio della crisi a oggi, le sanzioni inferte dagli Stati Uniti al colosso tedesco sono state di ben 12,4 miliardi di dollari. Altro che frecciatine di Trump contro la Merkel.

E poi c’è il vero bubbone: i derivati finanziari, di cui negli anni si è rimpinzata la Deutsche. Nel bilancio 2017 il loro valore nozionale (facciale, teorico insomma) arrivava alla follia di 48,3 trilioni di euro (5,4% sul 2016), che significherebbe 48mila miliardi, venti volte il debito pubblico italiano. In base ad astrusi calcoli, il saldo finale di questa galassia di contratti di compravendita sarebbe a rischio per “soli” 20,2 miliardi, che sono pur sempre il decuplo dei soldi di cui avrebbe avuto bisogno il Montepaschi, e che non ha trovato, per evitarsi la nazionalizzazione. Anche a voler buonisticamente credere che la maggior parte di questi 20 miliardi a rischio non produca perdite, stiamo pur sempre parlando di un terzo di tutte le sofferenze bancarie italiane concentrato in una sola banca tedesca. Un disastro, non ancora esploso soltanto perché le regole che il potere politico tedesco è finora riuscito a far applicare hanno “sottopesato” il rischio da derivati, concentrandolo invece tutto sugli impieghi a clientela.

Può darsi che stavolta la pacchia sia davvero finita e la cosa – complotto o non complotto che sia – indubbiamente suona come una sinistra eco finanziaria alla crisi politica nella quale Frau Merkel si trova incagliata per la prima volta dopo anni. Sia sul fronte esterno, dove il martellamento di Trump che attacca la Germania sul fronte doganale e su quello politico per la linea anti-Mosca; sia sul fronte interno, dove l’atteggiamento morbido (si fa per dire) tenuto dalla Cancelliera sui migranti ha stufato. I sondaggi dicono che il 61% degli elettori tedeschi richiede che i migranti che abbiano avanzato richiesta di asilo in un altro paese Ue siano espulsi dalla Germania, mentre la linea del governo – aver accolto 1,4 milioni di richiedenti asilo negli ultimi tre anni – è considerata un errore storico. Il suo alleato-ministro-rivale, Seehofer, potrebbe approfittarne per darle una spallata: e quest’eventualità, per quanto poco probabile, è molto temuta dalla Merkel e dai suoi sostenitori perché la maggioranza di governo sarebbe difficilmente sostituibile. E Angela potrebbe ritrovarsi come un’anatra zoppa.

La stampa tedesca è stata severa con la Cancelliera. L’acidissima copertina dello Spiegel ha sancito che Berlino non ha saputo gestire i migranti. Una specie di pietra tombale.

In un simile scenario, perfino l’ignoto Giuseppe Conte, con il suo garbo personale e la sua irrilevanza politico-istituzionale, si è rivelato un’imprevista spina nel fianco. Le sue parole, pur pacate, nell’ultimo vertice, sulla necessità di ridefinire le regole di distribuzione dei migranti sul territorio, pena la ridiscussione degli accordi di Schengen, hanno oggettivamente lasciato un segno.