Tiene più del previsto la congiuntura economica dell’eurozona, grazie alla tenuta dei servizi che compensa il calo dell’attività manifatturiera, in costante discesa da inizio anno. A ridare ossigeno alle imprese potrebbe essere l’euro, indebolito dalle scelte della banca centrale. Ma anche questo è un sintomo di una situazione di assoluto disagio: il comportamento monetario sempre più ”alla giapponese” riflette un handicap sempre più evidente dei princìpi stessi della Comunità europea.
I contrasti, violenti e crescenti, dell’eurozona sul dossier immigrazione (ma non è meno calda la frontiera tra Messico e Usa, mentre i rapporti tra i coniugi Trump non sono mai stati così freddi) sono la punta dell’iceberg di una crisi di identità del Vecchio continente, sempre più incerto e diviso, incapace di modificare il proprio modello di sviluppo, colpito al cuore dall’offensiva Usa sui dazi.
La crescita europea, così come l’ha voluta la Germania, si basa sul primato dell’export, che si accompagna alla moderazione dei consumi interni e a una gestione oculata (o micragnosa) degli investimenti pubblici. Il risultato è l’esplosione del surplus della bilancia commerciale, un fenomeno che si manifesta anche in Italia. All’apparenza un frutto positivo dell’efficienza, ma che si accompagna a un calo strutturale dei consumi interni, a danno di una grossa fetta dell’economia che, complici i nostri limiti strutturali, non a caso perde costantemente in produttività. Il boom delle medie imprese, spesso collegate al sistema economico bavarese (vedi la meccanica) occulta l’altra faccia del fenomeno: la tenuta del fabbisogno primario italiano (il più alto dell’area Ocse) è dovuta più al calo dei consumi (drammatico al Sud) che non alla forza del made in Italy.
L’offensiva di Donald Trump sui commerci ha messo in crisi il sistema distinto dalla formidabile forza dell’export tedesco, favorito da una moneta troppo debole per rappresentare l’efficienza del made in Germany, che dal 2003 vìola impunemente la regola Ue che vieta un surplus commerciale superiore al 4%. L’esito della contesa, come anticipa il recupero del dollaro, è segnato: gli Usa, “drogati” da consumi effervescenti (+0,8%) e dagli effetti della riforma fiscale, dipendono solo per il 12% del Pil dal commercio internazionale, contro il 44% dell’Unione europea.
Anche la Cina, già opificio del mondo, continua ad avere un forte surplus commerciale con il gigante Usa. Ma la dirigenza cinese, più intelligente, flessibile e illuminata, ha sempre avuto piena consapevolezza della fragilità di un modello di questo tipo, ha tirato ancora la corda per qualche anno per sistemare le sue cose e poi ha avviato un processo di ribilanciamento dalle esportazioni ai consumi, che ha ridotto il suo surplus delle partite correnti a un modesto 1,2%. Non a caso il conflitto commerciale con gli Usa ha un sapore politico: Trump vuole indebolire con ogni mezzo il programma “China 2025”, con cui Pechino intende conquistare la superiorità nell’innovazione, a partire da intelligenza artificiale e robotica, sopravanzando gli Stati Uniti. Al contrario, la vecchia Europa si illude di poter proseguire sul percorso tradizionale: il surplus corrente europeo, in rapporto al Pil, è ormai il triplo di quello cinese.
Oggi gli Usa, in una situazione geopolitica molto diversa da quella che ha visto il decollo della comunità di Bruxelles, vogliono colpire questo squilibrio strutturale. La risposta più intelligente probabilmente sarebbe quella “cinese”: una forte spinta verso investimenti strutturali, un graduale spostamento degli equilibri dal manufacturing orientato all’export al sostegno di un’economia dei servizi. Una grande, non facile e spesso dolorosa, trasformazione che richiederebbe capitali e, probabilmente, squilibri nella struttura finanziaria, come dimostra l’indebitamento dell’economia cinese.
Un appuntamento che la Germania ha cercato e continua a cercare di evitare: esemplare, al proposito, il lento tramonto del piano Macron. Nella versione tedesca il Fondo monetario europeo dovrebbe disporre di alcune decine di miliardi (noccioline di fronte ai problemi) e subordinato all’approvazione, volta per volta, del Parlamento di Berlino. Una goccia nel mare dei problemi, che arriva in un momento in cui le forze anti-sistema, dopo i successi in Italia, stanno insidiando la stessa Germania.
Riusciranno le élite tedesche a superare l’atteggiamento tradizionale? “Probabilmente sì” è la previsione di Alessandro Fugnoli di Kairos, che aggiunge: “Bisognerà purtroppo aspettare che l’acqua le salga alla gola, che la crescita cali e che nuove elezioni insedino al Bundestag una maggioranza diversa”.