Sono più di 5 milioni le persone che nel 2017 in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta, il valore più alto registrato dall’Istat dal 2005, quando sono iniziate le serie storiche su questo indicatore. L’incidenza della povertà assoluta è del 6,9% per le famiglie (era il 6,3% nel 2016) e dell’8,4% per gli individui (da 7,9%). Entrambi i valori sono i più elevati della serie storica. Si contano quasi 1,7 milioni di famiglie che non possono permettersi un paniere di beni e servizi essenziali e oltre un milione sono i minori in condizioni di indigenza. Le maggiori difficoltà, però, si registrano tra gli immigrati: tra i 4,9 milioni residenti nel nostro Paese ben 1,6 milioni sono poveri, addirittura il 29,2%, quasi sei volte il dato relativo agli italiani. Come leggere i dati di questa triste corsa che sembra inarrestabile?



“Sono il segnale sempre più evidente e drammatico – risponde Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano – di una rottura, un disaccoppiamento strutturale tra una limitata crescita dell’economia italiana e le cattive condizioni economiche dei redditi più bassi. Per questa categoria sociale non c’è più alcun indizio, pur marginale, di beneficio legato alla crescita. È una situazione veramente anomala e soprattutto strutturale, visto che dura ormai da almeno quattro anni”.



La povertà colpisce soprattutto al Sud, ma ieri, sempre dall’Istat, è arrivato un altro segnale preoccupante: il Centro Italia è l’area che cresce di meno. Sta forse per aprirsi una nuova crepa, che potrebbe allargare la platea del disagio?

Sì. E’ legata a un mix di fattori, a partire da una condizione di migrazione verso Nord che ormai accomuna il Centro e il Sud, dove vive una quota sempre più ampia di popolazione che potremmo definire “di trasferimento”. E chi rimane è sempre più costretto a lavori frammentati, in nero, dentro una cornice di deterioramento economico che probabilmente peggiora più di quanto ci immaginiamo.



Ieri il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, ha rilanciato sulla necessità di avviare il reddito di cittadinanza, e pure la flat tax. Potrebbero essere risposte efficaci e adeguate?

Se realizzate in misura equilibrata, sono un modo per diminuire la tensione sociale. I dati dell’Istat ci dicono che la tensione è fortissima. Tutto ciò che può allentarla, anche commettendo degli errori, perché sia con la flat tax che con il reddito di cittadinanza errori ce ne saranno, va fatta. Al più presto.

Il Reddito di inclusione che risultati sta dando? Va accantonato o va potenziato?

Il Rei, secondo me, ha dato qualche risultato positivo. Ma sconta due problemi all’origine: un finanziamento troppo limitato rispetto alle reali esigenze e parametri troppo rigidi per chi vuole usufruirne. Dunque, per potenziarlo occorre aumentare la dotazione di risorse e, per quanto difficile, realizzare interventi il più possibile vicini ai reali bisogni delle persone.

Un dato dell’Istat sembra molto preoccupante: tra le famiglie di operai l’incidenza della povertà è doppia rispetto a quelle dei pensionati. Il lavoro è dunque un punto cruciale. Come rilanciare l’occupazione? E il Jobs act è da rottamare?

Per come è stato organizzato il Jobs act aveva aspetti positivi, ma si sono visti poco. Il suo impatto ha prodotto più instabilità e precarietà. C’è però un problema culturale di fondo: la disoccupazione non si combatte solo con interventi e strumenti da giuslavoristi. La ricetta fondamentale è una sola: rilanciare gli investimenti. Da qui poi possono nascere tante modalità per far ripartire il mercato del lavoro.

Il Papa ha incontrato Macron e ha ricordato che “dovere dello Stato è aiutare i poveri”. Che cosa deve fare lo Stato?

Ha ragione Papa Francesco. Ci sono già una quantità di strumenti con cui intervenire. Ma i dati sulla povertà mostrano che sono utilizzati male o sono inadeguati nella loro applicazione. E così non si può andare avanti. Gli investimenti – lo ripeto – sono essenziali. È questo l’ambito in cui lo Stato deve intervenire, al meglio e subito.

(Marco Biscella)