I dati Istat sulla finanza pubblica pubblicati ieri ci confermano un disavanzo ancora in calo nei quattro trimestri terminanti a marzo 2017. Esso è stato pari a 37,9 miliardi di euro, due miliardi in meno rispetto all’intero anno 2017. Se riuscissimo a dimezzarlo esso si avvicinerebbe a un punto percentuale di Pil, un dato interpretabile come un quasi pareggio di bilancio e in grado di rassicurare i mercati finanziari che ogni mese debbono assorbire in media 35 miliardi di titoli del nostro debito pubblico, più di sette alla settimana e di uno al giorno.



Se tuttavia guardiamo ai dati relativi alla spesa pubblica totale e alle entrate pubbliche totali che quel disavanzo hanno formato qualche preoccupazione in più appare motivata: tra aprile 2017 e marzo 2018 la spesa pubblica totale è stata di 840 miliardi di euro, oltre 10 miliardi in più dell’intero anno 2016; invece le entrate totali, trainate dalla discreta crescita economica del 2017, sono state pari a 802 miliardi, registrando un identico incremento di 10 miliardi. In sostanza lo Stato ha incassato grazie alla crescita 10 miliardi in più e se li è spesi tutti. Ma quest’anno la crescita sarà minore e la spesa pubblica ancora più elevata, quanto meno per l’effetto della spread sulla spesa per interessi, risvegliatosi per ragioni politiche nell’ultimo mese.



Ciò che non appare sostenibile nei dati appena esaminati è proprio l’elevata spesa pubblica: 840 miliardi, corrispondenti a quasi metà del Pil totale e a circa al 60% del Pil prodotto dell’economia emersa, quella che paga le tasse, sono decisamente troppi e richiedono una riflessione ad ampio raggio sul perimetro del settore pubblico e sulle funzioni da esso esercitate. Ho sostenuto in un precedente intervento come la finanza pubblica italiana sia oggetto di un approccio di tipo hegeliano da parte della classe politica: tutta la spesa pubblica reale (nel senso di effettiva) è razionale e tutta la spesa pubblica razionale è reale. Solo questo spiega il fallimento in serie e il successivo esautoramento di tutti quelli che si sono occupati nel tempo di spending review. In un’ottica hegeliana non c’è proprio nulla da rivedere e la spesa è tutta indispensabile sino all’ultimo centesimo. Ovviamente questo approccio è sbagliato e quello corretto è l’opposto: l’esistente non ha nessuna implicazione necessaria per il dover essere, dall’essere settore pubblico in questo momento non si può desumere nessuna implicazione sul suo dover essere domani o dopodomani. Tutto l’intervento pubblico, tutti gli apparati pubblici possono e debbono essere messi in discussione. Occorre ripensarli da zero, possibilmente in un’ottica europea.



In Europa esiste una rilevante differenza tra i settori pubblici dei numerosi paesi che compongono l’Unione. Essa, contrariamente a quanto si può immaginare, non riguarda tuttavia il disavanzo pubblico o lo stock del debito in rapporto al Pil. Il grande gap, invece, è principalmente di performance degli apparati pubblici: alcuni paesi, principalmente quelli nordici e continentali, sono in grado di convertire in maniera efficiente in servizi pubblici le elevate imposte prelevate ai loro cittadini, mentre altri, prevalentemente collocati nell’Europa mediterranea, non lo sono. E l’Italia, come ben sappiamo, rientra a pieno titolo tra i secondi.

Vi è un modo molto semplice per spiegare tale differenza ed è la metafora del secchio bucato, suggerita dall’economista Okun: la redistribuzione pubblica avviene utilizzando secchi bucati e una parte delle risorse sottratte ai contribuenti si perde nel percorso che le porta ai beneficiari della spesa. In Europa i secchi sono diversamente bucati: poco al nord, molto al sud e praticamente sfondati in paesi quali l’Italia e la Grecia, tuttavia nel secondo sembrerebbe meno di qualche anno fa. Non vi è qui lo spazio per ragionare sulle cause della differenza: la storia dei paesi, il senso civico di cittadini e politici, il capitale umano, l’indipendenza dei media e la loro capacità di svolgere funzione di watchdog possono tuttavia essere chiamate efficacemente in causa. È invece prioritario ragionare sul fatto che il secchio usato dalle organizzazioni pubbliche sia comunque almeno un po’ bucato. Da cosa dipende?

In precedenti occasioni ho evidenziato tre ragioni chiave dell’ineluttabilità di esiti inefficienti delle organizzazioni pubbliche: (i) in primo luogo esse non sono assoggettate al controllo critico della concorrenza, strumento in grado di correggere comportamenti errati o irrazionali dei decisori economici e, in casi estremi, di metterne in discussione la sopravvivenza; (ii) in secondo luogo esse sono governate da architetture normative statiche, quelle dell’ordine giuridico che le ha istituite e degli apparati del diritto amministrativo che ne regolano il funzionamento; (iii) infine, ma nel sud Europa è probabilmente la causa più rilevante, possono essere dirottate dai politici e dagli alti dirigenti che per loro conto le controllano verso finalità incoerenti e spesso incompatibili con la loro mission istituzionale. In questo caso le risorse si perdono perché vengono appropriate da non aventi diritto e corrispondentemente sottratte agli aventi diritto.

Per riformare il settore pubblico e renderlo efficiente bisogna semplicemente cancellare questi tre fattori e identificare un nuovo modello organizzativo per gli apparati pubblici che sia in grado di evitarli. Proviamo a immaginarlo copiando dal settore privato. Il settore privato dell’economia si regge su tre pilastri fondamentali: la proprietà privata dei mezzi di produzione, l’uso del sistema dei prezzi, la concorrenza. Nel settore pubblico manca, inevitabilmente, il primo pilastro, ma sono assenti – non “inevitabilmente” – anche gli altri due: il fatto che i prezzi siano sostituiti da regole di produzione e di erogazione e che i costi siano coperti da trasferimenti pubblici, spesso slegati da qualità e quantità effettivamente prodotte, impedisce anche la concorrenza tra organizzazioni pubbliche, che è il fattore in grado di garantire l’uso efficiente delle risorse.

Bisogna dunque introdurre i prezzi anche nel settore pubblico e grazie a essi la concorrenza tra una pluralità di organizzazioni pubbliche finalizzate a produrre servizi della medesima tipologia. I prezzi non verrebbero pagati dai cittadini ai produttori pubblici, bensì da organizzazioni pubbliche con compiti di “provision” a organizzazioni pubbliche con compiti di “production”, poste in concorrenza tra di loro e anche nella possibilità giuridica di fallire se gravemente inefficienti. Infatti, il perseguimento dell’efficienza richiede di poter mettere in discussione l’esistenza delle organizzazioni qualora dimostrino per un tempo eccessivo di non essere in grado di raggiungerlo.

È dunque necessaria una riorganizzazione sotto nuove forme istituzionali degli apparati pubblici che producono servizi utilizzati dai cittadini. Si tratterebbe necessariamente di organizzazioni intermedie, al momento non esistenti, tra Stato e mercato, organismi ibridi con finalità pubbliche ma con strumenti operativi e di controllo tipici del mercato: recupero dei costi tramite i prezzi, concorrenza, fallimento. Si realizzerebbe in questo modo nel settore pubblico una dicotomia di forme organizzative tra: (i) strutture pubbliche finalizzate alla produzione di provvedimenti amministrativi, per le quali è giustificato il mantenimento all’interno della Pubblica amministrazione e l’individuazione di specifici e differenti percorsi di riforma; (ii) strutture finalizzate invece alla produzione di servizi, che debbono essere estromesse dalla Pubblica amministrazione anche se non trasferite necessariamente e totalmente a organizzazioni di mercato.

All’interno di queste ultime è inoltre opportuno separare: (i) le organizzazioni pubbliche finalizzate a erogare secondo regole non di mercato i servizi ai cittadini; (ii) le organizzazioni, pubbliche, o eventualmente non più pubbliche, finalizzate alla produzione di questi servizi. È compito delle prime quello di garantire il soddisfacimento di bisogni essenziali attraverso un’erogazione, quantitativamente e qualitativamente adeguata, di servizi. Esse integrano il lato della domanda, in sostituzione o a complemento della posizione dei soggetti beneficiari, e ne rappresentano il soggetto pagatore. Le organizzazioni del secondo tipo producono invece i servizi su incarico delle prime e ne i ricevono i corrispettivi dopo averli erogati agli aventi diritto. Esse rappresentano il lato dell’offerta e possono, anzi debbono, perdere l’incarico ed essere sostituite qualora la loro produzione sia qualitativamente insoddisfacente o antieconomica.

L’accesso all’offerta, inoltre, deve essere contendibile: nuovi operatori, anche totalmente privati, devono poter competere per offrire il servizio, mentre il soggetto responsabile dell’erogazione deve potersi privare dei servizi dei suoi fornitori, qualora inadeguati o eccessivamente costosi, e sostituirli, nell’interesse della collettività, con altri migliori. L’assegnazione del servizio deve avvenire con procedure a evidenza pubblica.

Le innovazioni indicate introducono, seppure in forma modificata e adattata, alcune caratteristiche tipiche del mercato: la possibilità di concorrenza tra fornitori, l’uso di strumenti contrattuali, l’uso del sistema dei prezzi, la definizione e il pagamento di corrispettivi legati a quantità e qualità dei servizi forniti, la possibilità di scelta del fornitore dei servizi da parte del cittadino. Si tratta di una rivoluzione copernicana rispetto all’attuale staticità del settore pubblico italiano, alla sua bassa qualità e al suo alto costo. Ma in questo modo saremmo finalmente in grado di ritornare a pieno titolo in Europa.