Giacca, cravatta e coccarda tricolore, il governo del cambiamento si è presentato proprio come tutti gli altri alla sfilata del 2 giugno. Passata è la tempesta? Non proprio, ma ormai bisogna cominciare a scegliere e deliberare. I prossimi appuntamenti non lasciano spazio a chiacchiere più o meno ideologiche, perché sono in ballo cose molto concrete come i posti di lavoro (si pensi all’Ilva e all’Alitalia), le tasse (aumenta o no l’Iva?), i risparmi degli italiani, i redditi di chi non riesce a far quadrare il proprio bilancio familiare.
Il governo giallo-verde si è presentato all’insegna del ritorno dello Stato, della protezione e dell’assistenza. Persino i ministri sono stati scelti con questo profilo: politici di professione, burocrati ministeriali, militari, professori universitari, avvocati, per lo più gente il cui stipendio viene pagato dalle finanze pubbliche, cioè da tutti i contribuenti. Non ci sono imprenditori (curioso per la Lega che ha il suo serbatoio nel Nord-est), né scienziati, scrittori o cooperanti. Nessuno, insomma, che dipenda per la propria sussistenza dal mercato sotto qualsiasi veste. Il personale politico dell’anti-casta è pieno di boiardi, come li si chiamava un tempo; non può essere un caso, anzi la dice lunga.
Uno degli appuntamenti più ravvicinati al quale i giallo-verdi attribuiscono grande importanza riguarda alcune nomine in enti pubblici (appunto). Sono scaduti i vertici della Cassa depositi e prestiti che per il nuovo Governo ha un ruolo strategico ancor maggiore di quello che ha esercitato finora. La Cdp è destinata a trasformarsi, più o meno surrettiziamente, nella mammella più florida da mungere. È al lavoro già da tempo Giancarlo Giorgetti, uomo chiave del governo come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e plenipotenziario di Matteo Salvini, il quale ha legami di lunga lena non solo con gli esponenti leghisti nelle fondazioni bancarie, ma con lo stesso Giuseppe Guzzetti, presidente delle Acri e della Fondazione Cariplo. Alle fondazioni spetta indicare il presidente e Guzzetti vorrebbe confermare Claudio Costamagna.
Vedremo presto i profili dei nuovi vertici e i loro programmi. Sia nell’Ilva, sia nell’Alitalia, la Cdp ha una posizione tutt’altro che secondaria. La domanda alla quale rispondere è: quanti denari dei contribuenti o dei piccoli risparmiatori, quelli dei libretti postali che sono nelle casse della Cdp, è disposto a rischiare il governo per l’acciaieria di Taranto e per la compagnia di bandiera?
Perché le risorse non ci sono. Non esistono le coperture né per il reddito di cittadinanza (neppure nella versione indennità di disoccupazione allargata), né per la flat tax. Giovanni Tria, neoministro dell’Economia, sostiene di voler rispettare i limiti di bilancio, quindi intende recuperare poco più di 12 miliardi lasciando che l’Iva aumenti dal primo gennaio prossimo. Non bastano, ma tutto fa brodo. Solo che l’aumento delle imposte indirette dovrebbe servire a riportare il bilancio pubblico entro il sentiero tracciato dagli accordi europei. Vuoi vedere che, nonostante le dichiarazioni della prim’ora, il governo intende forzare il tetto del 3%? È una domanda che porranno al consiglio europeo di questo mese gli altri capi di stato e di governo. E Tria dovrà portare ai suoi colleghi ministri delle Finanze qualche conto meno approssimativo.
E che dirà il popolo delle partite Iva il quale ha dato tanta fiducia a Matteo Salvini? L’aumento dell’imposta sul valore aggiunto non è esattamente quello che si aspettavano votando per la Lega. In più, provoca una riduzione della crescita e un aumento dell’inflazione. Pochi decimali, sia chiaro, ma è la direzione di marcia che conta. E un rincaro delle tasse indirette non è un bell’inizio.
Come dare concretezza a un programma che non si è mai preoccupato di indicare dove trovare le risorse per realizzare promesse ciascuna delle quali equivale a un aumento della spesa pubblica: ecco il primo, immediato obiettivo di Tria. Qui si misurerà non solo la sua qualità intellettuale,
che nessuno mette in dubbio neppure nel Pd e tanto meno in Forza Italia, ma il suo peso politico. Toccherà a lui far ingoiare amare medicine ai suoi colleghi e agli elettori. Sarà più determinato e abile di Pier Carlo Padoan?
All’economista che occupa la scrivania di Quintino Sella spetta poi un ruolo importante anche nell’area euro. Tria ha detto che nessuno vuole uscire dalla moneta unica. Salvini, però, non ha affatto cambiato idea: il governo sarà una perenne spina nel fianco di Bruxelles. Gli aculei verranno conficcati da Paolo Savona, ministro per gli Affari europei, però lui ha un compito di lungo periodo. L’economista, che nel corso della sua luminosa carriera ha ricoperto posizioni apicali nell’establishment, intende ridiscutere niente meno che il Trattato di Maastricht. Vasto programma, anche se per certi versi potrebbe essere meritorio. L’interfaccia quotidiano, invece, quello cui spettano le scelte concrete, è Tria. E lui risponde in qualche modo anche a Mario Draghi. Non perché sia la Bce a decidere la politica fiscale, ma perché la politica fiscale e la politica monetaria non possono fare a meno l’una dell’altra. Avremo presto un’altra lettera da Francoforte come quella che nell’estate del 2011 scosse il governo Berlusconi?
Entro l’anno andrà smorzandosi il Quantitative easing, il che vuol dire che la Bce non comprerà più titoli di stato italiani (ne ha in portafoglio per circa 340 miliardi di euro). Dunque il Tesoro sarà in qualche modo nudo davanti al mercato che potrà chiedere un più alto premio per il rischio che si prende. Questo mercato, se vogliamo uscire da un approccio metafisico, è composto da milioni di individui, di famiglie, di imprese; per lo più sono italiani perché solo un terzo del debito pubblico è nelle tasche di soggetti esteri (soprattutto istituzioni, grandi banche, fondi di investimento).
Saranno allora gli italiani a chiedere conto al Tesoro, anzi al governo nel suo complesso, e questa richiesta si rispecchierà nello spread che non è un’invenzione, bensì una conseguenza dell’incontro-scontro tra domanda e offerta, come qualsiasi altro prezzo. Gli ideologi giallo-verdi hanno spesso prospettato l’ipotesi che la banca centrale sia obbligata ad acquistare i titoli di stato invenduti. Ciò richiede di abbandonare l’euro e la Bce, ma in ogni caso la conseguenza immediata sarebbe un aumento della quantità di moneta e dell’inflazione, esattamente come accadeva nell’Italia “prima di Maastricht” alla quale vorrebbero tornare (almeno a parole) leghisti e pentastellati.
Se poi sotto la spinta di una svolta drastica della Federal Reserve aumentassero i tassi d’interesse, costringendo anche la Bce a fare lo stesso, a quel punto il debito pubblico italiano diventerebbe insostenibile. Non si tratta di fare i gufi, ma di essere realisti. I dazi e le tariffe sull’alluminio e sull’acciaio colpiscono nell’immediato anche l’Italia (un’incognita in più sulla sorte dell’Ilva) e indicano chiaramente in che direzione si muove Trump. Una strada che intende percorrere da solo. Inutile fasciarsi la testa, ma Tria non ha molto tempo. Quanto a Salvini e Di Maio, a quando un bagno di realtà?