“Do la mia parola che l‘Iva non aumenterà”; “Alla Ue diremo anche dei no”; “La ricetta per far decollare le imprese che creano lavoro è lasciarle in pace”. Così Luigi Di Maio, neoministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, si è espresso durante l’assemblea di Confcommercio. Come giudicare le sue parole? “Avere belle intuizioni è facile – risponde Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison -, ma quando ci si mette all’opera per legiferare e tradurre in concreto queste intuizioni non è mai semplice”. E comunque “mi aspetto che questo governo tradisca un po’ le promesse fatte in campagna elettorale, mostrando pragmatismo”, perché “è importante sostenere il clima di fiducia delle imprese e la domanda interna”.
L’impegno assunto pubblicamente dal ministro Di Maio a non aumentare l’Iva è comunque una bella notizia, non crede?
Se le clausole di salvaguardia, la cui sterilizzazione richiede un impegno finanziario non indifferente, non scattano è senz’altro positivo. Del resto, sono anni che si cerca di sterilizzare gli aumenti dell’Iva, perché avrebbero un impatto molto negativo sui consumi. Il problema però è un altro: dove vanno a reperire le coperture per realizzare tutte le misure che hanno promesso in campagna elettorale? Bisogna stare molto attenti per capire cosa faranno, perché alcuni interventi su alcune poste di bilancio finanziate in deficit sono al momento solo annunci unilaterali, e di solito le dichiarazioni unilaterali portano a sanzioni, perché non funziona così: le decisioni vanno concordate in sede europea.
Di Maio ha detto anche che “la ricetta per far decollare le imprese che creano lavoro è lasciarle in pace”. Cioè, meno leggi, meno adempimenti. Che ne pensa?
Avere delle belle intuizioni è facile, ma bisogna sapere che quando poi ci si mette all’opera per legiferare e tradurre in concreto queste intuizioni non è mai semplice. Di Maio ha detto una cosa che Sabino Cassese ci ricorda da anni: le imprese in Italia vivono in una giungla di norme, a cui si aggiunge una giungla di autorizzazioni, e poi c’è la giungla ancora peggiore delle responsabilità, dei veti incrociati. Non bastano le dichiarazioni per cambiare le cose. Altrimenti succede come sull’attrattività degli investimenti esteri. Per anni se ne è parlato, ma i capitali esteri sono arrivati solo quando è stato creato un quadro, normativo e anche politico, più stabile, come nel caso della farmaceutica.
Lasciar le imprese in pace vuol forse anche dire che non si hanno strategie precise? Del resto, il discorso alle Camere per il voto di fiducia pronunciato da Giuseppe Conte e il contratto di governo Lega-M5s sono stati giudicati vaghi, generici, proprio sui temi dell’impresa…
Non darei troppa importanza alle dichiarazioni di questo o di quel politico, di questo o di quel rappresentante di governo. Si respira ancora una certa aria di campagna elettorale, è una fase confusa, aspettiamo di vedere che cosa il governo Conte effettivamente metterà in essere. La vera strategia è costruire tassello dopo tassello un quadro di provvedimenti che possano dare slancio all’economia.
E qual è la prima strategia?
Salvaguardare i conti pubblici. A tal proposito, mi auguro addirittura che questo governo tradisca un po’ le promesse.
Nel senso che si è esposto troppo con impegni difficili da realizzare e da finanziare?
Mi auguro che sia un governo pragmatico. Dopo gli interventi in salsa Ue che in questi ultimi anni hanno provocato una recessione con effetti da seconda guerra mondiale, visto che dovendo fare i conti con gli attuali vincoli di bilancio abbiamo perso 120 miliardi di potere d’acquisto delle famiglie, pari al 10% della loro capacità di spesa, le uniche manovre possibili sono il “sentiero stretto” di cui parlava l’ex ministro Padoan oppure quella che chiamerei la “linea Cottarelli”, ancora più draconiana, dal momento che prevede un avanzo primario stabile del 4%. Quindi spero che il governo Conte, più che scatenarsi in operazioni fantasmagoriche come la flat tax, specie per i redditi individuali che richiede risorse roboanti, metta mano a interventi blandi, del tipo di quelli annunciati da Alberto Brambilla sulla legge Fornero, il cui costo si dovrebbe limitare a soli 5 miliardi. Se aumenteremo troppo la spesa, i mercati ci puniranno e ci crollerà la terra sotto i piedi.
Sotto il peso del debito?
Abbiamo un debito pubblico enorme, il cui costo per il finanziamento è oggi favorito dal Qe, grazie al quale la Banca d’Italia ogni mese acquista per conto della Bce 7-10 miliardi di titoli di Stato italiani, che solo ultimamente si sono ridotti a 4-5 miliardi. Ma come si finanzierà questa vacatio di acquisti quando i titoli andranno in scadenza? Tenga conto del fatto che, ammettendo che tutti i titoli avessero la stessa scadenza, ogni mese dovremmo affrontare impegni per rinegoziarli che costano quanto la riforma della “Fornero” immaginata da Brambilla.
Torniamo ai consumi. L’Istat ieri ha segnalato che le vendite al dettaglio sono calate.
Con la recessione i consumi sono caduti, poi molto faticosamente siamo riusciti a farli ripartire, e – vorrei ricordarlo – senza aver introdotto la flat tax o altre rivoluzioni fiscali che non prevedono entrate certe. Sulla ripresa dei consumi hanno giovato gli 80 euro, l’eliminazione della tassa sulla prima casa, il Jobs Act, che ha creato quasi 500mila posti di lavoro a tempo indeterminato. E se teniamo conto del fattore demografico, visto che in Italia abbiamo “perso” 250mila consumatori italiani standard, mentre la Germania ne ha guadagnati 2 milioni, il risultato è molto buono.
Intanto i ritmi produttivi rallentano (lo dice l’Istat), in Germania c’è una forte contrazione degli ordinativi e da luglio scatteranno i dazi decisi dalla Ue contro gli Stati Uniti. Lo scenario sta peggiorando. Che impatto avrà?
Certamente non siamo più nella fase di culmine del ciclo economico. È un problema non solo italiano, ma mondiale, che riguarda anche la Cina. La fase di rallentamento è già evidente nelle dinamiche dell’export italiano, che non cresce più a ritmi dell’8%, ma intorno al +2,5/3%. Non dobbiamo però preoccuparci solo delle esportazioni, che pure aiutano a “tirare” la manifattura, a far girare gli impianti produttivi, a garantire lavoro e salari agli addetti e a ridurre il debito con l’estero grazie al surplus, che oggi – vorrei sottolinearlo, con l’euro, e non con la lira e le svalutazioni come in passato – ha raggiunto la cifra record dei 50 miliardi di euro.
A quali indicatori dobbiamo guardare?
La spinta alla crescita arriva da quattro pistoni: consumi finali della Pa; investimenti in edilizia e grandi opere; investimenti privati; consumi delle famiglie. L’Italia ha potuto sfruttare solo le ultime due leve, muovendole alla grande. Quindi, dobbiamo guardare al clima di fiducia che incide sugli investimenti delle imprese e alla domanda interna, che è la componente decisiva per far crescere il Pil.
E cosa ci dicono questi dati?
Grazie a Industria 4.0, su cui occorre andare avanti con decisione, gli investimenti delle imprese sono cresciuti del 22%, record storico degli ultimi 50 anni, mentre sulla ripresa dei consumi basta ricordare che il Pil pro capite medio italiano negli ultimi due anni è cresciuto più della media dei Paesi del G7. Far meglio di così non è facile e se qualcuno promette interventi migliori, è giusto esigere di sapere bene “cosa” e “come” intende operare. Il nuovo governo è alle prese con una macchina difficile da guidare. Mettere mano a interventi sconclusionati rischia di ingrippare quei due pistoni che stanno funzionando molto bene, mettendo così a repentaglio una crescita faticosamente conquistata.
(Marco Biscella)