Più poteri alla Bce (“compiti pieni sul cambio” e “pieno e autonomo esercizio della funzione” di prestatore di ultima istanza per contrastare gli attacchi speculativi). Necessità di prevedere “una politica della domanda aggregata insieme a quella dell’offerta (le riforme)” per far uscire l’Europa “dai dualismi interni (divari di produttività)” e “fronteggiare gli shock esterni”. Sì alle riforme previste dal nuovo Governo, ma prestando la massima attenzione ai “modi – e tra questi, i tempi – in cui verranno attuate”, senza “fretta di procedere dal lato della spesa corrente prima che gli investimenti manifestino gli effetti attesi”. L’obiettivo? “Rendere l’Europa diversa, più forte e più equa”. Questi, in estrema sintesi, i passaggi chiave dell’intervento che il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, ha tenuto alle Commissioni parlamentari sui temi Ue per illustrare “le linee di azione strategica della nostra partecipazione alle iniziative dell’Unione Europea”. Le abbiamo commentate con Francesco Forte, economista ed ex ministro delle Finanze.



Partiamo dalla richiesta di più poteri per la Bce. “Se alla Bce – ha detto Savona – non viene consentito un pieno e autonomo esercizio della funzione di svolgere le funzioni di lender of last resort, indispensabile per una banca centrale, i mercati monetari e finanziari dell’eurozona, in particolare i debiti sovrani, restano esposti ad attacchi speculativi di diversa origine senza che essa possa agire in contrasto”. Condivide l’idea che la Bce, come la Fed, debba diventare prestatore di ultima istanza?



Ma la Bce lo è già. Come ebbe a dire Mario Draghi con il suo famoso “whatever it takes”. Su questo punto Savona sfonda una porta già aperta. Draghi, con intelligenza scientifica, ha difeso la stabilità monetaria, che prevede che una moneta, in questo caso l’euro, non possa cessare di esistere. È il principio di stabilità dell’Unione stessa. Perciò nelle crisi monetarie la Bce interviene proprio per risolvere questo problema di stabilità. Il problema, secondo me, è un altro.

Quale?

Questo prestatore di ultima istanza deve intervenire sostituendosi al governo singolo nell’attuare le sue politiche fiscali ed economiche o lo deve semplicemente aiutare solo dall’esterno? Su questo punto c’è una certa nebulosità. E poi non bisognerebbe mai pregiudicare la sovranità nazionale.



Perché?

Bisogna sempre distinguere tra crisi di liquidità, come succede il più delle volte e come è accaduto all’Italia nel 2011, e crisi di solvibilità.

La stabilità non è il presupposto della crescita di reddito e occupazione, bensì il risultato di un’azione congiunta su questi due obiettivi, ha detto Savona. È il ribaltamento del paradigma che ha contrassegnato gli ultimi dieci anni delle politiche europee?

Mi sembra una frase retorica, di sapore un po’ keynesiano. La stabilità monetaria di per sé non genera crescita, ma permette che la crescita possa dispiegarsi. La crescita non è frutto dell’azione monetaria, ma dell’azione fiscale. Se Savona vuole sostenere la flessibilità, va data alla politica fiscale per favorire gli investimenti, che generano crescita sul lato della domanda molto più che la domanda globale di consumi. I consumi, che hanno sempre una componente estera importata, hanno un effetto più efficace di breve termine, mentre gli investimenti, che sono di natura endogena e generano un aumento di produttività del capitale e del lavoro, dispiegano i loro effetti nel medio-lungo periodo, avendo in più la capacità di attirare ulteriori nuovi investimenti.

Savona ha invocato anche “l’attuazione di una politica europea degli investimenti”…

La deroga sulla flessibilità per gli investimenti sta nel negoziato sul Fiscal compact, che appunto consente di derogare se ci sono miglioramenti nel tasso potenziale di crescita, il cosiddetto output gap. E siccome la crescita, lo ripeto, spetta alla politica fiscale, il vero problema è che all’Europa manca una politica fiscale comune, che non c’è. Bisogna correggere il Fiscal compact, perché in Italia va evitato il giochetto di fare sempre marcia indietro sugli investimenti in quanto non sappiamo tagliare la spesa corrente. Il Fiscal compact non doveva nemmeno accennare agli investimenti: non si possono mai sacrificare gli investimenti produttivi.

Secondo Savona per far sopravvivere l’euro serve crescita, ma ha sottolineato che “dobbiamo essere pronti a ogni evento. Mi dicono: tu vuoi uscire dall’euro? Badate che noi potremmo ritrovarci nella situazione in cui sono altri a decidere”. C’è questa eventualità?

Dall’euro non si può uscire per ragioni legali. L’euro appartiene a una Spa, la Banca centrale europea, a cui le Banche centrali nazionali hanno conferito oro in cambio, appunto, della moneta comune. Quindi, se noi decidessimo di uscire, le nostre riserve auree resterebbero alla Bce. E ritengo che nessuno sia così matto da rinunciare alle proprie riserve auree. Anche l’idea, ventilata da alcuni centri studi, di una possibile uscita dall’euro della Germania, con la creazione di due monete, un euro “tedesco” e un euro “latino” concordati con la Bce, non ha alcun senso. Se la Germania dovesse uscire, ritrovandosi l’Italia sull’altro fronte e la Francia non saprei bene dove, i tedeschi rischiano di fronteggiare una pericolosa concorrenza artificiale e il mercato unico si spaccherebbe, provocando danni spaventosi. 

E l’euro, a quel punto?

Diventerebbe una moneta secondaria, agganciata al dollaro per evitare di creare incertezze sui mercati valutari, ma perdendo il suo ruolo, oggi rilevante, di moneta di riserva e lasciando al dollaro il ruolo di moneta mondiale. Nessuno farebbe mai la sciocchezza di uscire dall’euro. Più che pensare a questo, in Europa dovrebbero preoccuparsi di completare l’unione bancaria, in modo più serio ed equanime di quanto fatto finora.

(Marco Biscella)