Per favore, non cadete nel trappolone mediatico in atto: la situazione sta precipitando, seriamente, ma come al solito vi invitano a guardare il dito e non la Luna. Partiamo dal vertice Nato, brevemente, tanto per farvi un esempio. «Potrei uscire dalla Nato, ma non lo farò», ha detto Donald Trump ieri, dopo che il giorno prima aveva intimato ai membri dell’Alleanza di saldare al più presto i loro debiti – ovvero stanziare il 2% del Pil come da impegno statutario – e poi addirittura raddoppiando quella percentuale del Prodotto interno lordo per spese militari. Ovviamente, catastrofismo mediatico. Scusate ma cosa vi aspettavate? Il presidente di uno Stato indebitato fino al collo e che porta in grembo un’arma di distruzione potenziale di massa chiamata Wall Street, cosa può fare se non puntare – come tutti i suoi predecessori, dall’11 settembre in poi – sul warfare, il moltiplicatore bellico-industriale del Pil basato sul concetto di guerra permanente al terrore? E a chi venderebbero le loro armi gli Usa, se uscissero dalla Nato? A qualche cencioso staterello africano? Ai sudcoreani, a cui hanno già piazzato lo scudo anti-missile con la balla del rischio atomico dei vicini del Nord? A Israele, che già vanta più armi che aziende? 



Troppo comoda la scusa del terrorismo, troppo bella la panzana dell’esportazione della democrazia, nonostante lo stesso Trump avesse promesso isolazionismo e America First in campagna elettorale (aveva anche promesso fine dei privilegi di Wall Street, salvo poi obbligare la Fed ad abrogare de facto il Dodd-Frank Act voluto da Obama per limitare speculazione e azzardo morale). E poi, il terrore è intercambiabile: oggi è l’Isis, domani Kim Jong-un, dopodomani Putin (ovvero, l’evoluzione di quell’Al-Qaeda strutturata dagli Usa in chiave anti-sovietica e due leader divenuti di colpo interlocutori affidabili). 



E a proposito di Russia, sempre al vertice Nato di Bruxelles, il buon Donald ha attaccato di nuovo frontalmente la Germania, definendola schiava di Mosca a livello energetico, ovvio riferimento al progetto di pipeline South Stream 2. Bene, se questa cartina ci mostra come, almeno a livello militare, Berlino se è schiava di qualcuno lo è di Washington, la questione gas è meramente strumentale. Primo, perché dopo aver minacciato di sanzioni le aziende che prendano parte al consorzio di costruzione, il Dipartimento di Stato ha di fatto compiuto marcia indietro (vedremo se cambieranno le cose lunedì, dopo l’incontro Trump-Putin a Helsinki), secondo perché anche un idiota – quindi anche il presidente Usa – capisce che la speranza di obbligare gli europei a comprare il gas naturale liquefatto (Lng) statunitense è una chimera, stante soltanto il costo esorbitante del suo trasporto via mare. Magari fra 20 anni, ora è follia. 



 

Trump a Bruxelles ha solo cercato di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dai guai interni in arrivo sul fronte economico-finanziario, utilizzando la solita canzoncina ritrita degli Usa che difendono tutti e il mondo che non vuole pagare per quella difesa. Nei paesini dell’Indiana come nelle cittadine del Texas, tutto questo inorgoglisce, accende gli animi, è visto come molto patriottico: e in vista delle elezioni di mid-term dell’autunno (che possono letteralmente consegnare il Paese nelle mani dei Repubblicani, cancellando il Partito Democratico dalla mappa politica), tutto questo è anche tremendamente comodo e strumentale. Oltre che a costo zero. Un po’ come il terrore permanente. 

E se Theresa May ha mostrato al mondo tutta la sua disperazione, annunciando porte chiuse ai giovani europei che si recano nel Regno Unito in cerca di lavoro, visto che d’ora in poi ci saranno controlli e verranno accettati solo lavoratori specializzati di cui la Gran Bretagna ha bisogno (vedremo a breve la reazione al riguardo della Cbi, la Confindustria britannica), il problema dell’immigrazione rischia di subire una deriva simile a quella di Trump al vertice Nato: ovvero, sbagliare completamente bersaglio. 

Mentre infatti al vertice di Innsbruck si dà vita a strampalate coalizioni dei volenterosi fra Italia, Germania e Austria, scordando il piccolo particolare del quarto incomodo, ovvero quelle autorità libiche che se non operano in loco vanificano di fatto ogni misura repressiva europea (ammesso e non concesso che non si voglia arrivare ai blocchi navali e agli affondamenti di scafi), altrove la situazione sta bollendo. Ed è un altrove che finora ha garantito una sorta di pax migratoria al Paese che è più politicamente sensibile all’argomento, ovvero quella Germania che sul tema stava vedendo crollare il governo, a tre mesi dalle elezioni in Baviera e con Alternative fur Deutschland accreditata come secondo partito, davanti alla Spd, dall’ultimo sondaggio della Bild. 

Paradossalmente, è l’economia a fare da barometro alla situazione: guardate questi grafici, i quali ci mostrano la china da disastro che la lira turca e l’indebitamento esterno delle aziende di quel Paese ha intrapreso. Non più tardi di lunedì, la valuta turca ha perso nientemeno che il 4% sul dollaro, dopo che il presidente, Recep Erdogan, ha nominato ministro delle Finanze suo genero, Berat Albayrak e posto in essere misure che, di fatto, limitano al massimo l’indipendenza della Banca centrale, in primis sulla politica dei tassi di interesse. 

 

Ovviamente, gli investitori hanno scaricato contemporaneamente anche titoli e bond turchi, con il rendimento sull’obbligazione in dollari a scadenza ottobre 2028 passata dal 6,8% della settimana precedente al 7,15%. Per Paul McNamara, portfolio manager alla Gam Holding, «c’è un rischio ormai reale che questa situazione precipiti in una spirale che porti a una crisi valutaria in piena regola. Ormai sono troppe le bandiere rosse che stanno sventolando in Turchia e che in passato abbiamo associato con crisi economiche in arrivo». E il grafico parla chiaro: al netto di una valuta che continua a deprezzarsi, le aziende e il governo turco avranno sempre più pressione e difficoltà nel ripagare il debito estero, già appesantito dalla politica di rialzo del costo del denaro della Fed. Ankara, inoltre, ha uno dei livelli di debito estero più alti fra le nazioni in via di sviluppo, qualcosa come 53,4% del Pil, stando agli ultimi dati del Fmi. E se durante i trimestri allegri di Qe globale, le aziende turche si sono indebitate in dollari come se non ci fosse un domani, ora quel domani potrebbe arrivare a chiedere il conto. Salato, molto salato. 

Per carità, non siamo all’iper-inflazione stile Weimar o Zimbabwe o Venezuela, ma la strada è di quelle molto scivolose e conoscendo Erdogan – e i poteri pressoché assoluti di cui si è dotato con l’ultima vittoria elettorale -, quando vedrà la mala parata alle porte e sentirà a rischio il suo potere, state certi che tornerà a battere cassa presso quel bancomat sempre aperto e disponibile chiamato Ue. Visto, oltretutto, che il socio di maggioranza – la Germania, appunto – ha il terrore che si riapra la rotta balcanica, riversando milioni di profughi alle frontiere Nord, bypassando il comodo primo approdo in Italia tramite il Mediterraneo, tragitto che in base al mai superato Accordo di Dublino obbliga il nostro Paese ad accogliere pressoché tutti, consentendo a Paesi del Nord di blindarsi dietro i controlli alle frontiere e la sospensione di Schengen, se serve. 

Attenzione, quindi, a fare i conti senza un oste tutt’altro che malleabile e decisamente prono alla politica del ricatto come il presidente turco. Perché altrimenti, non basteranno tutti i vertici di Innsbruck e tutte le battaglie di retroguardia sulla Diciotti che il ministro Salvini potrà evocare insieme a Seehofer per evitare una crisi umanitaria in piena regola. Oltretutto, nel pieno della peggior stagione politicamente sistemica dell’Unione europea. Indovinate un po’ chi ne trarrebbe il vantaggio, economicamente in prima istanza e geopoliticamente subito dopo? Esatto, lo stesso soggetto che sta speculando sulla lira turca, ormai da mesi. E che in questo modo vuol fare anche capire a Recep Erdogan da che parte stare in Siria e che non è salutare comprare batterie missilistiche S-300 dai russi. Sveglia. Ma sveglia davvero.