La Commissione europea, nelle sue previsioni estive, ha tagliato la stima di crescita 2018 dell’Eurozona, dal 2,3% al 2,1%, e dell’Italia, dall’1,5% all’1,3%. Il nostro Paese si conferma fanalino di coda in Europa, insieme alla Gran Bretagna. Per Bruxelles, pesano sia le incertezze a livello globale che interno. Su quest’ultimo punto viene fatto notare che “ogni riemergere di timori o incertezze sulle politiche economiche, e il possibile contagio dei tassi più alti sui costi di finanziamento delle imprese, possono peggiorare le condizioni del credito e zittire la domanda interna”, che resta l’asse portante della ripresa italiana. «Mi fa piacere che la Commissione europea si ricordi della domanda interna. Peccato che lo faccia solo quando le fa comodo, visto che poi la distrugge costantemente non permettendo al motore pubblico degli investimenti di entrare in funzione», ci dice Gustavo Piga, Professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma.



Professore, la Commissione segnala i rischi di tassi più alti, che tra l’altro sono stati influenzati dal recente rialzo dello spread, che ha effetti negativi anche sui conti pubblici. Perché il costo del nostro debito continua a salire? 

Certamente per una maggiore incertezza degli operatori, dovuta anche alle dichiarazioni assolutamente poco consone di alcuni ministri riguardo l’incertezza sulla permanenza dell’Italia nell’euro e la necessità di avere un piano B. Non c’è dubbio, però, che il vero problema sia quello sintetizzato da Draghi nella sua audizione al Parlamento europeo, quando ha detto che manca una conoscenza di quelli che sono i progetti reali del nostro Governo. 



Sembra che l’esecutivo voglia scoprire le carte solamente a settembre con la nota di aggiornamento del Def…

In realtà non è l’aggiornamento di nulla, dato che un Def non c’è. Quello presentato da Padoan non è un vero Def, visto che manca la parte programmatica. Il nuovo Governo avrebbe dovuto supplire subito a questa carenza, invece non l’ha fatto. È normale che in assenza di tale documento programmatico ci siano nervosismi amplificati da comportamenti a mio avviso poco responsabili da parte di alcuni ministri. 

Secondo lei che tipo di documento programmatico ci vorrebbe?



Abbiamo bisogno di un Def che si focalizzi su un deficit al 3%. Credo che Tria sia conscio di questo quando continua a evitare di parlare di deficit, parlando invece di debito per cercare di crearsi dello spazio per politiche a supporto della crescita, però è ovvio anche che ci sono delle dinamiche interne che precludono al ministro dell’Economia di fare affermazioni più precise. E questo è grave, perché crea incertezza e perché fa pensare che poi alla fine la spunteranno i falchi dell’Europa che si autodistrugge piuttosto che le colombe di chi vuole un’Europa che si riprenda grazie anche alle politiche degli investimenti pubblici e della domanda interna che la Commissione riconosce quando le fa comodo. 

Questa incertezza sulle politiche che il Governo intende realmente attuare secondo lei da cosa dipende: inesperienza delle forze al Governo, dissidi e divergenze tra loro…?

All’interno del Governo c’è una componente che chiede politiche (flat tax e reddito di cittadinanza) che sforano il deficit al 3% del Pil e un’altra componente, tra cui il Mef, che vorrebbe cercare di tenere il deficit dove sta oggi, all’1,5-1,8%. Poi c’è l’Europa che invece chiede manovre ben più dure. C’è quindi una lotta in questo momento. 

Tra chi?

Sia tra le componenti della maggioranza che tra il Governo e Bruxelles. Purtroppo il giusto posizionamento al 3% non lo vedo da nessuna parte, né in Salvini, né in Di Maio, né in via XX settembre. Abbiamo bisogno di risorse per fare investimenti pubblici, non si può tenere il deficit all’1,5%: non ci sarebbero denari sufficienti per fare sviluppo e creare domanda interna e abbassare il rapporto debito/Pil. Se non ci libereremo del Fiscal compact, non riusciremo a salvare l’euro e quindi l’Europa, perché saremo sempre più preda di maggioranze politiche sostenute da chi si chiede che senso abbia stare in Europa se non arrivano politiche di supporto. 

Dunque anche una nuova flessibilità per la prossima Legge di bilancio non basterebbe…

La flessibilità è austerità. Ridurre il deficit dal 2% all’1% invece che a zero implica sempre togliere spazio alla domanda interna. La flessibilità non è certo qualcosa di positivo. Se si fa meno austerità si ha un minor danno, ma noi non abbiamo bisogno di questo, ma di una politica economica a supporto della ripresa. Quindi la flessibilità fa meno male dell’austerità, ma fa comunque male a questo Paese. 

(Lorenzo Torrisi)