L’economia americana si accinge a festeggiare il proprio ottimo stato di salute. Non a caso, alla vigilia dei dati delle trimestrali delle grandi banche, a partire da JP Morgan, il Nasdaq celebra un nuovo record assoluto. Con un colpo di reni anche Microsoft ha superato la barriera degli 800 miliardi di dollari di valore, già raggiunto da Apple, Amazon e Alphabet (ex Google), iscrivendosi alla gara tra chi varcherà per primo il muro dei mille miliardi di dollari. 



In quale misura questo primato appartiene alle scelte di Donald Trump? Non poco, se si pensa all’impatto della riforma fiscale e dei buybacks effettuati dalle società quotate che quest’anno riverseranno (e in buona parte l’hanno già fatto) circa 1.200 miliardi nelle tasche degli azionisti. Ma sarebbe riduttivo attribuire alla politica del presidente un fenomeno che viene da lontano e che sancisce la riscossa della Corporate America dalla crisi del 2008 in poi. Se andiamo indietro nel tempo, al luglio di dieci anni fa, giusto prima del crollo dei fondi Bear Stearns, scopriamo che da allora la Borsa di New York è cresciuta del 121%, Francoforte del 93%, Shanghai solo dell’1,2%. Milano è ancora sotto: il 13 ottobre del 2008 l’indice segnava 22.642 punti, oggi oscilla attorno ai 22 mila. 



Certo, la Borsa non misura tutto, ma è un buon segnale della produttività di un sistema. La Cina ha oggi un’economia di dimensioni quasi tripla rispetto a dieci anni fa (13 trilioni di dollari contro i 4,6 del 2007), ma la sua capitalizzazione di borsa (funzione della sua redditività di sistema) è rimasta invariata. Un’apparente follia che ha una spiegazione facile: una parte dell’economia cinese, quella che fa capo all’area statale, non produce ricchezza, ma la brucia, sostenuta com’è solo da un forte aumento dell’indebitamento. Al contrario, la Borsa Usa non fa che registrare la lunga fase di crescita, finora 108 mesi, iniziata nel giugno 2009 e che promette di durare ancora un po’ a giudicare dall’andamento del debito delle famiglie sceso a circa l’80% del Pil e delle imprese.



È su questa base solida che s’innesca la retorica di Trump, assai efficace nella comunicazione più, almeno per ora, che sul fronte dei risultati concreti. Ma, nella stagione delle fake news, l’importate è saper gestire i messaggi. I risultati verranno dopo.

In Italia, intanto, il frastuono su migranti e vitalizi fa passare in secondo piano un fenomeno relativamente nuovo e virtuoso: l’approdo sui mercati del capitale di rischio delle piccole e medie imprese del capitalismo italiano, fino a ieri avvolte nella nebbia dei crediti bancari, spesso protette dall’anonimato dalla curiosità del fisco o, in tempi più lontani, dal pressing del sindacato. Lontano dai clamori, l’Aim, l’Alternative Market dedicato alle piccole società, ha raggiunto le 105 unità, grazie all’arrivo di matricole agguerrite, che spesso rappresentano case histories istruttive. 

È il caso dell’ultima arrivata, Monnalisa, società di abbigliamento di Arezzo sbarcata in Borsa dopo il lungo tirocinio del programma Elite di Borsa Italiana: la quotazione in questo caso è solo l’ultimo passo di un piano di riorganizzazione per dotare l’azienda della necessaria struttura finanziaria. Non meno istruttiva la storia di Somec, uno dei principali operatori mondiali nell’ambito della progettazione, produzione e installazione di involucri vetrati e di aree catering per navi da crociera, piuttosto che di Askoll Eva, che progetta, sviluppa e produce veicoli elettrici a due ruote, in particolare biciclette e scooter, così come kit e componenti nell’area dei motori e delle batterie elettriche, multinazionale tascabile che sta rafforzando la sua rete in Germania. E così via. 

Dall’elenco delle matricole dell’Aim, sedici finora nel 2018, emerge, insomma, un’Italia ben diversa da quella raffigurata dalle cronache quotidiane: è l’unica vera ricchezza di un Paese che, da sempre, prospera solo se lavora e trasforma materie prime (acquistate fuori) in valore aggiunto.