Nuovo record assoluto per il debito pubblico italiano, che – secondo la Banca d’Italia – a maggio è aumentato di 14,6 miliardi rispetto al mese precedente, arrivando a quota 2.327,4 miliardi. L’aumento da fine 2017, quando il debito si è attestato a 2.263 miliardi, è stato di 84,3 miliardi (+3,6%). Non solo: ieri l’Ecofin ha pubblicato le raccomandazioni sulle politiche di bilancio degli Stati membri, adottate dalla Commissione e approvate dal Consiglio europeo di giugno. All’Italia si chiede per il 2018 “uno sforzo strutturale di bilancio pari almeno allo 0,3% del Pil” e l’utilizzo di “entrate straordinarie per accelerare la riduzione del rapporto debito pubblico/Pil”. Per Leonardo Becchetti, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, non si tratta di due “novità” negative. “Abbiamo margini per trattare, però non possiamo più sprecare risorse. E dobbiamo affrontare i problemi strutturali del Paese”.
Partiamo dal nuovo record del debito pubblico. Professore, perché la corsa non si ferma?
Il debito pubblico in valori assoluti non è un dato significativo, è molto più importante tenere sotto controllo il rapporto tra debito pubblico e Pil. E al momento non si segnalano problemi eccessivi, visto che le previsioni 2018 lo danno in lievissimo calo.
Intanto l’Ecofin ci chiede una correzione dei conti, ma il ministro Tria ha riconfermato che per il 2018 non se ne parla, tutto è rimandato alla primavera del 2019. Dopo i migranti, si aprirà presto un nuovo fronte caldo con l’Europa proprio sui conti pubblici?
Non penso, anche perché l’oggetto del contendere è modesto, vale 4 o 5 miliardi di euro. In questo non c’è nulla di nuovo, perché confronti e negoziati con la Ue sulla flessibilità ci sono stati anche con i governi precedenti.
Ma ora c’è la novità del governo giallo-verde…
Ci sarà, infatti, molto probabilmente una differenza in merito alle modalità con cui queste trattative verranno condotte. All’interno del governo c’è una forza politica, i 5 Stelle, più europeista e un’altra, la Lega, più propensa ad alzare i toni e a battere i pugni sul tavolo. Toccherà al ministro Tria conciliare le due posizioni e farsi garante della credibilità e della buona reputazione del nostro Paese.
L’Ecofin ci chiede anche di prevedere “entrate straordinarie”. L’Europa, secondo lei, vuole l’introduzione di una patrimoniale?
No, nessuna rivoluzione in vista, i margini per negoziare ci sono tutti, anche perché l’Italia non ha un livello di deficit preoccupante. Piuttosto, si tratta di sfruttare meglio un ciclo economico che, seppur in misura più moderata, è ancora positivo.
A tal proposito, dopo i proclami della campagna elettorale, sulle misure per rilanciare la crescita si è visto ben poco. Colpa di possibili visioni diverse tra M5s e Lega?
Esistono, sì, visioni diverse. Ma l’aspetto più triste è che l’ultima campagna elettorale ha toccato uno dei punti più bassi, con promesse assolutamente incompatibili con i vincoli Ue, che, attenzione, non sono solo paletti artificiali, ma parametri che aiutano a garantire la tenuta dei conti pubblici e la sostenibilità del debito pubblico.
Ora la campagna elettorale è alle spalle, i partiti che hanno fatto quelle promesse sono al governo e devono governare…
Il governo è a un bivio: o interviene il meno possibile e fa capire agli elettori che quelle promesse erano irrealizzabili oppure rischia di mettere a repentaglio la tenuta del sistema. Se si vuole comunque andare verso un taglio della pressione fiscale, l’intervento è realizzabile, ma solo nella misura in cui si dà vita a un drastico calo dei fenomeni di evasione ed elusione, secondo il principio del “pagare meno, pagare tutti”.
Che cosa si può fare per rilanciare la crescita?
L’Italia è un secchio bucato, per cui è inutile continuare a versare acqua.
La metafora serve per dire che…
Serve a ricordare che il Paese soffre di problemi strutturali pesantissimi, basti pensare al divario tra Nord e Sud: al Nord abbiamo quasi la piena occupazione e si convive benissimo con l’euro, al Sud abbiamo invece ritardi e criticità sempre più gravi. Il nostro problema non è il deficit; a far da zavorra sono i tempi della giustizia civile, l’accesso al credito per le piccole imprese, i costi della burocrazia. Tutti fattori che hanno contribuito, e contribuiscono, nel tempo a far calare la produttività. Come è stato confermato in questi giorni, con l’Italia ancora fanalino di coda in Europa per tassi di crescita.
Il problema, secondo lei, non è il deficit?
Abbiamo usufruito di diversi spazi concessi dalla Ue, ma sprecando soldi. E pensiamo anche a quanti fondi europei non riusciamo a utilizzare. Il nostro guaio è che siamo scarsi nella capacità di realizzare con profitto certe idee e certi progetti.
Pesa, però, come un macigno la penuria di investimenti.
Ogni risorsa andrebbe destinata a finanziare gli investimenti. Va recuperata, per esempio, Industria 4.0, che ha offerto agevolazioni fiscali condizionate, grazie alle quali è stato possibile dare una notevole spinta alla produzione di beni strumentali e all’aggiornamento tecnologico delle nostre imprese. Per rilanciare la crescita si potrebbe intervenire anche sul costo del lavoro, ma qui, sì, esiste il nodo delle risorse da trovare.
Il commissario ue agli Affari economici, Pierre Moscovici, ha detto nei giorni scorsi che “l’aggiustamento strutturale dei conti pubblici è indipendente dalla crescita” e va fatto. Lo stesso Tria si è impegnato con la Ue su questa strada. Dobbiamo aspettarci privatizzazioni, tagli di spesa, eliminazioni di sussidi?
Non credo che questo governo voglia mettere mano alle privatizzazioni, anche perché rappresentano entrate una tantum. Tagli ed efficientamento della spesa pubblica sono invece più che necessari. Si è parlato, per esempio, di interventi sulle tax expenditures, ma in questo campo bisogna fare attenzione, perché toccano interessi particolari, favoriscono categorie deboli o aiutano l’emersione del nero, come nel caso dei bonus edilizia. Si potrebbe, piuttosto, pensare a iniziative nuove, come i bond di impatto sociale. Sono strumenti che ridurrebbero la spesa pubblica, specie nei campi della sanità e dell’assistenza, attraverso forme di partenariato che coinvolgerebbero soggetti privati, pubblici e non profit, trasformando i beneficiari in protagonisti dell’intervento. Una formula win-win.
Intanto non abbiamo ancora il Def programmatico. Che ne pensa?
La prima cosa da fare è dire la verità: oggi c’è spazio solo per iniziative a costo zero. Il governo deve trovare il coraggio di dirlo.
(Marco Biscella)