E adesso anche Luigi Di Maio ha i suoi esodati. La relazione tecnica al disegno di legge sul mercato del lavoro ha fatto emergere i primi danni collaterali: 80 mila rapporti di lavoro oggi come oggi superano i 24 mesi, quindi sono in contrasto con le nuove norme; senza cambiamenti, ottomila persone perderanno il lavoro ogni anno di qui al 2028. Che fare? Tutto ciò assomiglia alla brutta sorpresa della ministra Fornero: quando ha aumentato l’età pensionabile, ha scoperto all’improvviso che alcune migliaia di lavoratori sarebbero precipitati in una terra di nessuno, senza lavoro e senza pensione. Di qui, l’esigenza di correre ai ripari, di mettere una pezza.
Come sempre quando una regola è frettolosa, incompleta o addirittura sbagliata, si ricorre alle eccezioni. Adesso si discute di estendere il “periodo transitorio”. Tra questa correzione inevitabile, la reintroduzione dei voucher, la ridefinizione delle causali per evitare una esplosione dei contenziosi giudiziari, i tecnici stanno riscrivendo in gran parte il cosiddetto “decreto dignità” che si rivela così frettoloso, incompleto e soprattutto profondamente sbagliato perché irrigidisce un mercato del lavoro che senza dubbio va tutelato, ma non ingessato.
Non è il solo effetto boomerang. Prendiamo il Ceta, il trattato con il Canada. Di Maio lo vuol bloccare perché si è fatto convincere da una Coldiretti come sempre assistenzialista e protezionista. Lui e la lobby agricola non considerano che l’accordo commerciale tutela oggi una quantità di prodotti italiani vastissima, dall’aceto balsamico alla lenticchia di Castelluccio, dal vino valpolicella al prosciutto di Parma, dalle arance di Sicilia al gorgonzola e via via enumerando. Anche questi rischiano così di restare nella terra di nessuno, perdendo le protezioni del Ceta senza acquistarne altre, anche loro diventano in un certo senso degli esodati.
Troppi sono i dossier che Di Maio nel suo delirio di onnipotenza vuole gestire. Si pensi solo all’Alitalia e all’Ilva. Altro che esodati, qui si tratta di decine di migliaia di posti di lavoro a rischio. Tutto ciò riapre la questione sull’impreparazione e sulla scarsa competenza della nuova classe dirigente. Il governo giallo-verde finora non sta offrendo grande prova di sé. Sui migranti, la chiusura dei porti appare come un provvedimento astratto, un’impuntatura non una strategia, tanto che poi Matteo Salvini si vede per lo più costretto a fare marcia indietro. In politica estera, i proclami filo Putin sono poi smentiti dai voti sulle sanzioni e dalla necessità di ribadire la fedeltà alle alleanze occidentali. Sulla difesa si è passati, senza un minimo di dibattito, dal neutralismo all’interventismo (in Africa, ma non solo) con tanto di cacciabombardieri americani, gli odiati F25. Non parliamo dell’euro, tra cigni neri e piano B, viene fuori che due terzi degli italiani non pensa di uscire, quindi sia i leghisti che i pentastellati sono spinti a cambiar spalla al fucile senza colpo ferire.
Ma le incongruenze maggiori riguardano senza dubbio l’economia. “Quando parla Giovanni Tria i mercati comprano, quando parlano gli altri, vendono”, commenta con una battuta Renato Brunetta. Il ministro dell’Economia nel suo modo controllato e diplomatico ha detto molti no a quello che è già apparso come un assalto alla diligenza. Non vuole manovre di aggiustamento (e questo è un no a Bruxelles), ma nemmeno un allargamento del deficit (e questo è un doppio no a Di Maio e a Salvini). Ma sta resistendo anche alle manovre spartitorie sulle nomine pubbliche. Per la Casa depositi e prestiti, di gran lunga la poltrona più importante, considerata strategica dai giallo-verdi, si assiste a una lite che ha pochi precedenti, persino ai tempi del pentapartito l’arrembaggio per la divisione delle spoglie era meno furioso.
Tutto, allo stato attuale, sembra mostrare un’alleanza di governo litigiosa e confusa e un’arte di governo degna di Hellzapoppin’. Ciò induce a pensare che le cose non dureranno a lungo, che la resa dei conti verrà prima del previsto e non resta che attendere seduti sulla riva del fiume. È questa la convinzione che guida sia il Pd che Forza Italia e produce una vera e propria mancanza di opposizione.
Le difficoltà dei partiti sono diverse. Il Pd è lacerato dai suoi conflitti interni ed è anche inutile ammonire che gli italiani, a cominciare dai suoi elettori, non sono disposti ad aspettare la fine degli odi tra i capicorrente. Silvio Berlusconi guarda ancora soprattutto al proprio ombelico. La sua preoccupazione è che il governo non faccia del male a Mediaset. Certe uscite di Beppe Grillo che riesuma un nuovo assetto televisivo tale da far saltare la legge Gasparri suonano come una minaccia. Il rinnovamento di Forza Italia è timido e del tutto formale. Mancano uomini nuovi e soprattutto idee. Ciò accumuna un partito orfano del Berlusconi liberista a un partito orfano del Renzi rottamatore.
Bisogna dire che non è facile mettere insieme uomini e idee. Mentre è chiaro che il modello populista non funziona, è assolutamente oscuro con che cosa sostituirlo. Il paradigma precedente, quello multipolare, europeista, liberale, è entrato in crisi e non può essere riproposto così com’era. Un nuovo paradigma non è all’orizzonte. Siamo bloccati in quella zona d’ombra tra il vecchio che muore e il nuovo che non nasce ancora. Ma ciò non toglie che bisogna tornare a pensare, a proporre, a gettare in campo novità che funzionino, a lanciare nella tenzone politica altri campioni. Attendere sulla riva non ha senso. Perché il fiume non trascinerebbe via con sé solo il cadavere giallo-verde, ma anche quello del Paese intero.