Mi venga un colpo! Per abbattere il gap dell’output occorre adeguare il potere d’acquisto al fine di poter smaltire quanto si è prodotto, così viene riportato il meccanismo produttivo in equilibrio che, gira e rigira, genera tutta la ricchezza possibile. Eh no! Quelli dell’Output gap working group [1], una “Giuria” di giudiziosi che giudica ma non giura sul giudicato, non ci stanno. Tra il lusco e il brusco li senti sussurrar: se tutti hanno venduto e tutti hanno acquistato non stiamo nel migliore dei mondi possibili. Sì, perché così si acquista pure il vecchio, il malfatto, magari anche il più costoso. Così la voglia di migliorare la produttività e la capacità competitiva delle imprese va a farsi friggere!



Ok, siamo alle solite. D’accordo, non mi sottraggo, ho in casa i led come tutti, ma…. l’emozione del lume di candela, vuoi mettere… intriga e se smucinando nel borsellino trovo un soldino la voglio e quella cera la piglio. Intriga al tempo dell’Ikea, che ha cambiato i connotati all’abitare, pure un mobile artigianale. Intriga anche andare a cena “dar bugliaccaro” pure dopo quel McDonald’s che ha uniformato il mangiare. Ehi voi del calcolo esoterico, che intendete misurare il divario della crescita, ce la farà il miglioramento produttivo a braccetto della competitività di quelle imprese a tenere al massimo la produttività totale di capitale e lavoro dell’intero sistema, se restan fuori quelle merci invise a voi?



Orbene se quel seduto su una sedia impagliata mangiando casereccio al lume di candela sembra ledere l’assoluto “produttività/competitività”, mi tocca rammentare come non stia nella merce il valore, ma nel lavorio, nei bisogni, nelle voglie, nelle emozioni e nelle passioni di Tizio; nel fare i conti poi tirar fuori il borsellino, infine spendere. Giust’appunto, il valore non sta dentro la merce; sta invece nella soddisfazione di quelle “voglie”; nell’esser scarse e che quello stesso tizio disponga del denaro necessario per poterla acquistare. Valore, insomma, che si mostra solo nel gesto del prezzo pagato.



Altro che quella produzione potenziale, schiava del consumo potenziale che, suddito della spesa potenziale, subisce il ricatto del potere d’acquisto reale. Già, quel misero reale che resta in tasca quando le Imprese dopo aver strizzato il Clup (Costo del lavoro per unità di prodotto) riducendo il lavoro e/o il salario, trasferiscono la ricchezza, generata dalla spesa, per remunerare i fattori della produzione. Bella no?

Dunque, care Vestali dell’output per ridurre quel gap e poter fare il “Pil massimo” non basta ben produrre, s’ha da fare la spesa; per farla tocca avere in tasca i denari sufficienti e, piaccia o meno, acquistare tutto quel che passa il convento, magari disponendo, alla bisogna, in portafoglio delle Usup. Sì, quelle Unità di spesa per unità di prodotto. A meno che… non si voglia continuare a surrogare il Pil con il debito. Quello complessivo globale ha raggiunto 247 mila miliardi di dollari nel primo trimestre del 2018. Lo riporta l’Institute of International Finance, precisando nel suo Global Debt Monitor che l’incidenza dell’indebitamento totale rispetto al Pil globale ha raggiunto il 318%.

[1] Quelli che sul loro sito scrivono: ”Il divario del Pil o l’output gap è la differenza tra output potenziale e output effettivo. La produzione potenziale è il livello di produzione che può essere raggiunto quando l’economia funziona a piena capacità e i fattori di produzione sono quindi utilizzati a livelli non inflazionistici”.