Un applauso, sincero, a Donald Tusk e Jean-Claude Juncker (al quale auguro di aver smaltito l’attacco di sciatica, capitava anche a me alcune volte la domenica mattina). E non sto scherzando. L’accordo di libero scambio fra Ue e Giappone è un qualcosa di fondamentale importanza, ancorché simbolica se parliamo di volumi netti. Certo, mica noccioline (58 miliardi di euro in beni e 28 in servizi, in un contesto che riguarda 600 milioni di persone), ma sicuramente nemmeno un argine al disastro che gli americani stanno ponendo in essere. Comunque sia, è un primo passo. A mio avviso, tardivo, però. Perché occorreva osare e far partire quell’accordo da subito, non l’anno prossimo: per allora, passate le elezioni di mid-term negli Usa, il mondo non sarà più quello che stiamo vivendo oggi. Ma non disperiamo, perché la porta aperta verso Tokyo pare prodromo di qualcosa di più serio e strutturale, ovvero un riavvicinamento alla Cina dell’Unione europea, dopo che lo stesso Tusk ha svenduto la dignità di un intero continente inseguendo le esternazioni bipolari di Donald Trump durante il suo tour europeo, culminato lunedì con l’incontro a Helsinki con Vladimir Putin. Ma di questo, parleremo dopo. Restiamo sul cosiddetto Jefta (Japan-Europe Free Trade Agreement), questo l’acronimo dell’accordo fra Europa e Giappone e sull’ultima polemica avanzata come al solito da quelli competenti, quelli bravi che sanno tutto e fanno la morale agli altri, in primis Repubblica e quei secchioni del Foglio. 



Incuranti del continuo innalzamento dell’asticella del ridicolo di cui si stanno rendendo protagonisti, ora la polemica anti-governativa a priori si attacca anche al presunto doppiopesismo dell’esecutivo sulle scelte relative agli accordi internazionali: ovvero, sì allo Jefta ma non al Ceta, l’accordo con il Canada, già bocciato da M5S e Lega, oltre che dalla Coldiretti (la quale immagino abbia numeri e competenze un filino maggiori rispetto alle camicie ben lavate e inamidate dei colleghi di quei giornaloni così prestigiosi). Non fatevi ingannare, lor signori cominciano a essere nervosetti, quindi la buttano in caciara. 



Perché non ci vuole un genio del commercio estero per sapere che, al netto dell’aumento dell’interscambio Italia-Canada, il Paese di quel fighetto tutto politicamente corretto di Justin Trudeau è tutt’altro che corretto quando si tratta di italian sounding, ovvero contraffazione di nostri prodotti tipici (dal vino ai formaggi, all’olio ai sughi) che costa alla nostra economia qualche miliardo all’anno. Il Giappone, no. Secondo e più importante, la terra del Sol Levante non è sede delle filiali operative estere dell’80% dei principali marchi Usa, i quali attraverso il Ceta potrebbero non solo evitare i dazi Ue posti come reazione a quelli di Washington, ma anche importare le loro porcherie alimentari, vietate dai bilaterali fra Ue e Usa. Ma si sa, l’ideologia acceca. Il livore, ancora di più. E ve lo dice uno che, come sapete, non ha lesinato critiche al governo in carica, né all’Europa. Anzi. Ma mi hanno insegnato che la realtà è sovrana, quindi poco m’importa di dover ammettere che a Bruxelles ne hanno finalmente fatta una giusta. Anzi. E ancora meno mi sento umiliato o sminuito dall’applaudire all’iniziativa del ministro Tria, come riportata dal sempre informato Federico Fubini sul Corriere di ieri, di sfruttare le sue conoscenze ed entrature in Cina per cercare di piazzare il nostro debito pubblico nel delicato periodo del post-Qe, quando l’acquirente di prima e ultima istanza della nostra carta – la Bce – si limiterà a uno swap sulle scadenze dei titoli già in portafoglio, ma non potrà più riempire le aste e tenere artificialmente basso lo spread per statuto. 



Certo, da tifoso milanista invito Tria a dare una bella occhiata agli eventuali acquirenti con gli occhi a mandorla dei nostri Btp, ma, al netto delle criticità di cui vi parlo da tempo, la Cina è l’unico e il vero player globale che conti. E, soprattutto, l’unico con una Banca centrale che può fare ciò che vuole, inondare di liquidità i mercati compreso. Gli Usa avranno da ridire? Si rivolgano a Repubblica e al Foglio per lamentele, troveranno sicuramente soddisfazione. Noi, europei, pensiamo ai nostri interessi d’ora in poi, visto che la stessa Russia di Vladimir Putin lunedì ha dimostrato di avere come unica stella polare la sopravvivenza (garantita da un accordo energetico con gli Usa, non certo da una guerra) e non il bene supremo del mondo. 

E veniamo alla questione Trump-Putin, appunto. Di fatto, quella andata in scena (e in onda, a livello planetario) lunedì a Helsinki è destinata a diventare, niente più e niente meno, che la più famosa e inquadrata firma di una polizza assicurativa della storia. Donald Trump, attaccando l’Fbi e creando le condizioni per il suo impeachment (non diretto per quelle accuse sul Russiagate, ma per vie traverse che magicamente salteranno fuori, da qui a novembre), si è garantito l’immunità da vendette future, ha firmato il suo atto formale di adesione al progetto che lo vede chiamato a fungere da capro espiatorio globale per evitare che la prossima crisi ci metta in ginocchio definitivamente. Ora, in punta di serietà, cos’altro è emerso di tanto eclatante? Nulla. Putin che conferma di aver tifato Trump contro la Clinton? Sarà, ma non mi stupisce. La volontà di superare i toni da Guerra Fredda? Bene, ma non mi pare qualcosa destinato a finire nei libri di storia, stante almeno la realtà sul campo, in Siria come in Iran. Il dialogo su energia a livello globale e risorse nucleari? E se davvero avessero trovato un’intesa su qualcosa al riguardo, lo avrebbero fatto in due ore nel corso dell’incontro più strombazzato e mediaticamente coperto del secolo?

Quello di Donald Trump è stato l’atto formale di chi sta interpretando, ormai da mesi, una recita a soggetto, cui tutti quanti sembrano sottostare, come parti in commedia. E non perché siano stupidi, anzi. Perché sanno che senza la guida Usa verso il potenziale disastro, il disastro vero è assicurato che arrivi: serviva una Fed che alzasse i tassi senza essere massacrata come quella di Greenspan, serviva una Casa Bianca completamente ingestibile in politica estera, serviva soprattutto un Paese – gli Stati Uniti – diviso come mai tra Guelfi e Ghibellini e, soprattutto, incattivito. Perché è quando la tensione è ai massimi che un evento, qualunque evento di grande portata, ottiene il massimo del risultato: chi è forte, affronta il dialogo e il confronto senza paura. I deboli devono subito mostrare i pugni. Ed è ciò che l’America ha fatto con l’attacco commerciale sui dazi, di fatto colpire il bersaglio grosso di un soggetto debole, l’Ue. 

Washington, in realtà, non ha mai compiuto un atto reale che mettesse a repentaglio la stabilità – economica, politica, sociale o territoriale – di Russia e Cina, perché sa che queste reagirebbero. Lo stesso vale, nel suo piccolo e nella sua dimensione di proxy, con un cliente rognoso come l’Iran, trattato in maniera ben diversa dalle varie Siria, Iraq, Afghanistan, Yemen e quant’altro si sia destabilizzato, anche a fini interni, in questi decenni. Il dibattito in America, dopo lunedì, è furente, quasi senza precedenti. La parola più utilizzata da quotidiani liberal e Democratici, per descrivere l’atteggiamento di Trump verso la Russia, è “tradimento” ma gli stessi Repubblicani hanno definito un errore la conferenza stampa da luna di miele con Vladimir Putin: Donald Trump, ora, è davvero solo. A livello politico, ben inteso, perché una larga parte dell’America sta con lui. Ma quella parola, “tradimento”, nella patria della venerazione laica dei veterani di guerra, del Vietnam, del sacrificio di Martin Luther King e Jfk è un marchio d’infamia: basta farla passare nell’opinione pubblica, sostituendola all’ormai ritrita Russiagate e poi infilarla nel ventilatore dei media, messo a massima potenza e il voto di mid-term potrebbe consegnarci un’America del tutto diversa. 

Un’America dialogante, non urlante, non razzista, non omofoba, non estremista. Un’America che tutti accetterebbero di buon grado e accoglierebbero a braccia aperte, riammettendola fra gli applausi al consesso della civiltà umana. Donald Trump sarà archiviato, una meteora che – col tempo – diventerà anzi la riprova della grandezza della democrazia statunitense, in grado di portare chiunque alla Casa Bianca, ma anche di superare qualunque tempesta. Nel frattempo, chi dovrà operare perché il casinò continui il suo gioco, lo farà. In silenzio. Oppure anche gridando le sue imprese en plein air, tanto ci sarà lo spauracchio Trump a giustificare qualsiasi mossa emergenziale. Qualsiasi. A qualsiasi latitudine del mondo. 

A mio avviso, il gioco è già scritto. Ho solo paura di una cosa. Quando si azzarda così tanto, basta davvero un inconveniente ridicolo per tramutare un piano ben congegnato in un’altra Waterloo.