Se c’è qualcosa di sacro, di sottolineato con la matita rossa nel prontuario del perfetto presidente degli Usa è il non mettere becco nella politica della Fed. L’indipendenza della Banca centrale è sacra e l’ultima cosa che l’inquilino di Pennsylvania Avenue (qualsiasi sia la sua appartenenza politica) può permettersi è commentare o, peggio, criticare le decisioni prese dal Comitato monetario, il Fomc. Ora, siamo tutti uomini di mondo, quindi sappiamo che di pressioni il governatore della Fed ne subisce e tante dalla politica, ma sono tutte o indirette o fatte giungere in sede privata: pubblicamente, non una parola.
Bene, per non far mancare proprio nulla al suo curriculum di estrosità, Donald Trump giovedì ha infranto anche questo tabù, dicendo durante un’intervista di non essere affatto contento per il rialzo dei tassi. Apriti cielo, debitamente ignorato dalla stampa autorevole, quella troppo impegnata a dare conto dell’ennesima puntata di Tangentopoli 2.0 che, con timing perfetto, questo splendido ma disgraziato Paese sta vivendo in uno dei suoi momenti più politicamente e istituzionalmente delicati. A stretto giro di posta, la portavoce della Casa Bianca ha cercato di mettere una pezza, ribadendo l’assoluto rispetto della Casa Bianca per l’indipendenza della Fed, ma il vaso di Pandora ormai era scoperchiato. E, statene certi, stavolta non è stata affatto farina del sacco un po’ originale e variopinto del tycoon newyorchese.
Quella precisazione è stato un assoluto pro forma, ma tutti sanno che le parole di Donald Trump avevano uno scopo preciso: preparare il campo alla grande inversione. E, di conseguenza, all’ondata di crisi che la renderà necessaria. Da perfetto capro espiatorio, il Presidente Usa sta procedendo come un diligente scolaro al completamento del compito che gli è stato affidato, oltretutto alternando sapientemente e scientificamente parole che pesano come pietre, come quelle sulla politica monetaria della Fed, ad altre assolutamente inutili e quasi frutto di una personalità disturbata, vedi le capriole sull’intervento della Russia nelle presidenziali del 2016. Così facendo, tutto va nel frullatore e si mischia: ma l’importante è che quanto riferito alla Fed sia stato detto, non quanta credibilità gli viene attribuita dai media, anch’essi parte in commedia.
Sapete quanto interessa all’americano medio della questione Russia e Russiagate? Ce lo mostra questa tabella, relativa all’ultimo sondaggio della Gallup: niente. Ma la cosa più importante non è nemmeno questa evidenza, nota di fatto a chiunque conosca un po’ gli Usa, anche senza bisogno di studi statistici su base scientifica. La cosa importante sta tutta nelle due voci principali del Recent trend: problemi economici 14, problemi non economici 81. Quest’ultima voce, in continuo aumento.
E quale sottocategoria svetta nella seconda voce: l’immigrazione illegale, tallonata dalla delusione per la poco leadership politica. Quindi, se non stupisce e pare anzi segno di maturità il fatto che l’americano medio non si beve la propaganda dei media sull’influenza russa, inquieta come l’allarme di distrazione di massa sia uguale negli Usa come in Europa, Italia in testa. La gente vede l’immigrazione come la minaccia principale e quasi ignora il rischio economico incombente, addirittura le emergenze già presenti. Guardate questo grafico, il quale ci mostra un cambio di paradigma storico: il debito scolastico, croce della società americana al pari del credito al consumo e dell’uso maniacale delle carte di credito, ha raggiunto livelli talmente ingestibili da vedere i genitori, spesso negli ultimi anni di lavoro, intenti a ripagare il debito dei figli, i quali escono di casa sempre più tardi, quando l’America è sempre stata la terra dell’indipendenza personale una volta finito il liceo e andati al college (o a lavorare).
Ma è anche in altro che la società americana è cambiata, tanto da garantire al potere spazi di manovra e propaganda molto assimilabili a quelli della tanto vituperata Russia di Putin. Una ricerca della Cdc appena pubblicata sul suo Mortality and Morbidity Weekly Report mostra i risultati di uno studio condotto in 10 Stati degli Usa fra luglio 2016 e giugno 2017: si tratta di Kentucky, Maine, Massachusetts, New Hampshire, New Mexico, Ohio, Oklahoma, Rhode Island, West Virginia e Wisconsin. Bene, i casi di overdose da Fentanyl e altri derivati degli oppiacei sono raddoppiati, addirittura facendo parlare le autorità sanitarie di una terza ondata di crisi che sarà epidemica, poiché i nuovi derivati sintetizzati arrivano a essere fino a 10mila volte più potenti della morfina normalmente usata per sedare i dolori.
Una nazione di zombie, insomma. L’ideale per porre in essere decisioni politiche estreme: soprattutto, se in contemporanea città come Chicago o Cleveland di fatto sono già oggi laboratori viventi di controllo sociale, essendo sottoposte a regime emergenziali, compreso il coprifuoco notturno nelle aree più a rischio, a causa del numero di omicidi e violenze record, in un’altissima percentuale di casi legata proprio alla nuova esplosione del traffico e dello spaccio di droga. Lo so, di questa America nessuno parla. Ma è l’America profonda, quella lontana dalle luci di New York e Los Angeles che fra pochi mesi, stando ai risultati dello studio Gallup, si troverà ad affrontare – nello stupore generale – una crisi simile a quella del 2008: e come allora, tutto sembrerà uscito dal nulla.
Invece, è nascosto da trimestri e trimestri proprio nei portafogli di investimenti di quegli americani medi che convivono con vicini di casa dipendenti da oppiacei e che pensano che i loro risparmi, oltre che a coprire le spese per mandare al college un figlio, siano al sicuro dentro il Fondo pensione statale o aziendale. Il quale, invece, vista l’euforia da Trumpnomics, si è spinto un po’ oltre, ingolosito dalla nuova corsa all’oro, la ricerca di rendimento in un mondo a tasso zero: insomma, i portafogli di placidi fondi per accantonamenti previdenziali, in America, sono pieni di immondizia peggio di un hedge fund. E, prima o poi, salteranno. Per primi, oltretutto, perché gestiti non da specialisti, ma, di fatto, da ragionieri e consulenti del lavoro che solitamente preparano statini degli stipendi e piani ferie. Il sogno americano, vendere illusioni a prezzo di mercato.
Signori, la rottura del protocollo presidenziale compiuta giovedì da Donald Trump meritava le prime pagine dei giornali ieri e non per la sua irritualità, ma perché il primo disvelamento pubblico, ancorché ovviamente dissimulato, del piano che vi illustro dal novembre 2016, quando il tycoon fu spedito alla Casa Bianca con la missione dell’America great again: creare le condizioni per un Qe perenne, stile giapponese. E finora, stando anche alle risultanze della rilevazione Gallup, il piano è stato portato avanti a meraviglia, un lavoro da maestro. Ora, però, qualcosa deve essere andato fuori giri: «Lo yuan sta crollando come un sasso», ha twittato Trump, prima di lanciare il suo siluro contro la Fed. Come stia la questione cinese e il suo peso negli equilibri finanziari del mondo, l’ho spiegato nel mio articolo di ieri, quindi non sto a ripetermi.
E il tutto è condensabile efficacemente in questi due ultimi grafici, i quali ci domandano una cosa: se tutto è così perfetto, come ci direbbe la percezione di rischio degli americani interpellati da Gallup e come confermano i resoconti economici dei media e i tweets di Trump, come mai il costo per proteggersi da rischio di crollo degli assets continua a salire? Perché c’è la fila a cercare protezione dai tonfi di mercato? Solo eccessiva cautela? O chi opera veramente e non gestendo fondi pensione sa come stanno le cose, tanto che Trump è uscito allo scoperto, attaccando la politica di rialzo dei tassi della Fed, perché ormai i tempi sono maturi e l’allarme ormai rosso?
La correlazione Vix/Skew e il volume di Cds su cui si è operato da inizio anno, parlano chiaro: il mercato non è quello che vede Wall Street rompere un record al giorno grazie a buybacks e irrazionali rialzi delle mitiche Faang in bolla storica e senza precedenti, è quello di chi specula sul breve ma nel frattempo si copre. E si copre per il diluvio, non per un acquazzone. Ci siamo, Trump ha scoperchiato il vaso di Pandora, nonostante i media abbiano ovviamente derubricato il tutto come l’ennesimo sgarbo protocollare dell’incorreggibile inquilino della Casa Bianca. Non è così, quella sparata era un segnale in codice. Che, unito a quello inviato negli ultimi due giorni da Pechino, parla chiaro: tutti sotto coperta, la tempesta perfetta è davanti a noi. Ogni giorno, sempre più vicina.
E attenti, perché l’America ignara della crisi, indebitata fino al collo e drogata di civilissimi antidolorifici su prescrizione, in autunno andrà a votare per le elezioni di mid-term. Poi ditemi voi se tutto questo può essere solo una coincidenza.