Mike Manley, l’inglese che finora ha guidato Jeep e Ram, è il nuovo amministratore delegato della Fiat Chrysler Automobiles. Che cosa accadrà adesso? La Fca riuscirà a trovare marito o resterà ancora nubile e per quanto, ora che il rallentamento dell’economia e dell’industria automobilistica riapre la danza delle fusioni e delle acquisizioni? Sono queste le domande che vengono subito in mente, ma l’addio di Sergio Marchionne apre anche interrogativi che riguardano l’Italia: l’economia, perché la filiera automobilistica ha fatto da locomotiva alla ripresa, e la politica perché il manager dal maglioncino nero in tutti questi anni ha recitato da protagonista, diventando una sorta di spartiacque tra un sindacato conflittuale e un sindacato consensuale, tra riforme che modernizzano il Paese e controriforme che vogliono riportarlo indietro.
Marchionne è stato accusato da aver portato la Fiat fuori dall’Italia. In realtà, da quando agli inizi degli anni 90 la caduta delle ultime barriere ha aperto il mercato interno alle auto straniere, la quota della Fiat è sempre scesa, si è ridotta la produzione, sono stati dimezzati i dipendenti, il gruppo è arrivato alla soglia del crac con la morte di Gianni e Umberto Agnelli a un anno di distanza l’uno dall’altro. Quando ancora indossava giacca e cravatta, il manager ha risanato la Fiat, anche grazie a un astuto negoziato con la General Motors, ha introdotto nuovi modelli con una logica più da venditore che da ingegnere (si pensi al successo della 500 dovuto in buona parte anche al marketing), ha trasformato l’organizzazione del lavoro introducendo un nuovo rapporto tra uomo e macchina.
Poi è arrivato il gran colpo: l’acquisizione della Chrysler senza pagare un centesimo. La ricaduta sull’Italia è stata negativa in prima battuta e poi positiva quando l’integrazione tra le due aziende ha consentito di introdurre nuovi modelli. Anche qui il successo della Jeep, e della Renegade prodotta in Italia, è frutto di una combinazione tra marketing e prodotto.
Manley, un manager tutto straniero, quale attenzione dedicherà alle produzioni italiane? Guarderà ancora all’Europa o si getterà a corpo morto sul mercato dove la Fca resta più debole, cioè l’Asia e in particolare la Cina? Punterà sui marchi di lusso come Maserati e Alfa o resterà solo Ferrari che vive ormai di una vita parallela e avrà un suo capo azienda? Domande che per ora non hanno risposta. Una risposta chiara, invece, si può dare già agli interrogativi che riguardano la politica.
Marchionne ha avuto un’influenza importante. Basti ricordare, negli ultimi anni, come ha sostenuto Mario Monti, anche il tentativo, poi fallito, di creare una formazione politica propria. L’allora presidente del Consiglio ha dato inizio di fatto alla sua campagna elettorale nel dicembre 2012 partecipando nello stabilimento di Melfi alla presentazione del nuovo piano industriale. Il manager ha poi appoggiato Matteo Renzi, salvo poi dichiararsi deluso dopo la sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale. Così facendo, è stato Marchionne, non John Elkann ad appropriarsi della funzione che aveva Gianni Agnelli, quando con le sue battute, sempre enfatizzate dai media, riusciva a lanciare messaggi in grado di influenzare il dibattito politico italiano.
Questa “moral suasion” da parte del maggiore esponente del capitalismo italiano, passerà a qualcun altro? Certo non a Manley. Ed è difficile anche immaginare Elkann nel ruolo del nonno. Ancor meno probabile che tocchi a capitalisti di taglia minore, la maggior parte dei quali non ha né l’autorevolezza personale, né l’autorità che deriva dal potere: non ci sono più grandi gruppi privati, non ci sono più industriali in grado di esercitare una leadership se non proprio una egemonia. Vedremo ancora le rituali cerimonie di presentazione al Quirinale delle nuove vetture sfornate dalle fabbriche italiane? Forse no. Può darsi che sia un bene, certo è la fine di un’era.
Dal punto di vista squisitamente imprenditoriale, Marchionne lascia due grandi vuoti da riempire: non è riuscito ad allearsi con nessuno (“chi comanda è solo”, ha detto una volta) e non è riuscito a entrare in Asia. Sul piano politico, la spinta modernizzatrice di un uomo che ha contribuito in modo importante a globalizzare l’automobile italiana ha prodotto una reazione opposta. Nella sua ultima uscita in pubblico il 26 giugno, quando ha consegnato una Jeep all’arma dei Carabinieri, Marchionne ha detto che lui comprende anche politicamente Donald Trump, perché in un modo magari discutibile esprime l’esigenza di un riequilibrio sul mercato globale. In realtà, quel che prevale oggi, anche in Italia, non è la ricerca di un assetto più equo e solidale, bensì il protezionismo (fino a esaltare i dazi che sono cianuro per l’economia italiana) e la chiusura in se stessi, demonizzando non solo il mercato internazionale, ma persino il fatto che l’Italia abbia uno dei maggiori attivi commerciali dell’Occidente. Paolo Savona, ad esempio, considera il surplus con l’estero come “la prova che l’Italia vive al di sotto dei propri mezzi”, quindi l’attivo andrebbe utilizzato per finanziare un rilancio della spesa pubblica.
Marchionne, allora, lascia la Fca con pesanti sconfitte, dopo aver vinto tante battaglie? Alla Fca dipende da che cosa farà il suo successore, in Italia dipende da chi saprà rilanciare l’idea che da Torino si può conquistare anche Detroit, diventando diversi, ma tutto sommato più forti.