I Ministri Paolo Savona e Giovanni Tria hanno proposto, in audizioni parlamentari, interviste e articoli un rilancio dell’investimento pubblico come leva per la crescita. Le cifre indicate variano tra i 50 e i 100 miliardi, da finanziarsi non interamente a carico dello Stato, ma anche facendo ricorso a fondi d’investimento a lungo termine italiani e stranieri. A riguardo, la settimana scorsa si è tenuto un interessante seminario presso la Ragioneria Generale dello Stato.



La proposta è ineccepibile sia sotto il profilo teorico, sia sotto quello della politica economica italiana. L’investimento pubblico, se articolato in progetti ben concepiti e rigorosamente valutati dal punto di vista finanziario, economico e sociale, ha, di norma due effetti: nella fase di cantiere, utilizza fattori produttivi (capitale e lavoro) non totalmente impiegati; nella fase a regime, la maggiore dotazione di capitale sociale da esso creata contribuisce all’aumento della produttività.



Dal punto di vista della politica economica, occorre notare che l’investimento pubblico era pari al 3,5-4% del Pil negli anni Ottanta, ma è sceso al 2,5% del Pil negli anni del riassetto dei conti pubblici per entrare nell’eurozona. Negli ultimi ha faticato a raggiungere e superare il 2% del Pil, livello del tutto inadeguato come dimostrato da numerosi studi anche della Banca europea per gli investimenti.

Incidentalmente, l’inadeguatezza del parco infrastrutture non è un problema soltanto italiano ma di tutta l’eurozona, particolarmente acuto in Germania, come sanno di tutti coloro che in estate viaggiano sulle autostrade, ad esempio, della Baviera. C’è, per l’Italia, un problema di compatibilità dei conti pubblici con le regole del Trattato di Maastricht. Tria sostiene da tempo la necessità di una golden rule per esentare l’investimento pubblico dal calcolo dei parametri del Trattato. In una recente intervista, Savona sottolinea che l’avanzo con l’estero (2,7% del Pil) prova che l’Italia necessita di una politica moderatamente espansiva e rafforza la giustificazione di un ampio finanziamento, anche in deficit, di spesa pubblica in conto capitale.



Basta leggere l’ultimo saggio del principale e più ascoltato consigliere economico del Cancelliere tedesco Angela Merkel, Han-Werner Sinn della Ludwigs-Maximilians Universitaat di Monaco (The ECB Fiscal Policy CESifo, Monaco aprile 2018), per capire che non spira aria buona rispetto a queste idee dalle parti del maggior azionista dell’Unione monetaria.

Ma siamo certi che il vincolo principale è quello delle regole europee in materia di finanza pubblica? A mio avviso, ci sono ostacoli molto più seri. Il primo è la mancanza di una platea di progetti sufficientemente dettagliati (progettazione esecutiva, computi metrici, ecc.) da poter essere “cantierati”. Era un ostacolo già negli ultimi anni del secolo scorso. E si è acuito dalla crisi del 2008. Da allora, i privati sono stati sempre più preoccupati di difendere l’esistente (dalla crisi) che di progettare il futuro. Nelle pubbliche amministrazioni, la riduzione progressiva e continua della spesa in conto capitale non incoraggiava certo a lavorare per tradurre idee in progetti preliminari ed esecutivi. È sufficiente constatare che il fondo rotativo per la progettazione presso il ministero dell’Economia e delle Finanze è stato poco utilizzato e che sorte analoga hanno avuto i fondi per la progettazione presso le Regioni. C’erano progetti veri e propri sottostanti la “legge obiettivo”. La “struttura di missione” per l’attuazione della legge è stata sciolta nell’autunno 2016, la documentazione inviata alle varie Direzioni generali del ministero delle Infrastrutture perché la riesaminassero e prendessero in carico. L’intera operazione ha avuto una lunga battuta d’arresto.

Il secondo ostacolo è il disperdersi della cultura della progettazione e valutazione (specialmente d’infrastrutture) molto forte in Italia negli anni del “miracolo economico” e che si tentato di rilanciare negli anni Ottanta. L’Unità di valutazione del Ministero dell’economia e delle finanze è stata smembrata: parte dei suoi componenti è ora presso la Presidenza del Consiglio e parte presso l’Agenzia per la coesione. Da lustri, non pubblicano più manuali, guidelines settoriali, studi analitici. Non si sa nulla del loro lavoro. Dal 199 5al 2009, la Scuola superiore della Pubblica amministrazione (ora Scuola nazionale d’amministrazione) ha tenuto oltre 150 corsi in materia di valutazione di piani e progetti; i docenti non provenivano solo dalle università, ma anche dalla Banca Mondiale, dalla Banca europea per gli investimenti e da società di progettazione. Dal 2006, tali corsi erano in larga parte finanziati dall’Unione europea. Dal 2010, il programma è stato chiuso e gli oltre 5.000 funzionari e dirigenti formati dispersi in uffici che poco hanno a che fare con le materie in cui sono stati formati.