Mi scuserete se non mi unisco al coro apologetico per Sergio Marchionne, di fronte alla cui situazione personale e di salute tolgo il cappello come farei con chiunque combatta la battaglia più dura. Manager come operaio, avendo io stesso da poco passato un periodo non facile in ospedale. Non lo faccio per alcune ragioni, prima della quale non vorrei turbare la linea di consenso che accompagna in maniera quasi taumaturgica, quando non parossisticamente macchiettistica, la figura dell’ex amministratore delegato di Fca, quasi fosse stato l’unico industriale illuminato che questo Paese abbia mai concepito. Chi erano, infatti, chessò, Mattei od Olivetti, di fronte al genio italo-canadese? 



Lascio pure a voi decidere se sia io un iconoclasta irrispettoso o piuttosto un ipocrita agiografo chi sembra scordarsi non tanto delle condizioni disperate in cui Marchionne ha preso Fiat (nessuno se la prende con il chirurgo, se il paziente arriva ormai più morto che vivo sul tavolo operatorio, non ce la fa), quanto di quelle di stra-favore che Fiat ha trovato Oltreoceano: Marchionne ha solamente esportato il modello storico del fare industria del Lingotto (privatizzare gli utili e socializzare le perdite, prima grazie agli ammortizzatori sociali e poi con il ricorso strutturale a incentivi di Stato) al di là dell’Atlantico, poiché in Italia non c’era più trippa per gatti, come Mario Monti fece chiaramente capire a Fiat, una volta giunto a Palazzo Chigi e quando la cavalcata Usa del gigante torinese era già iniziata e in rampa definitiva di lancio strutturale. 



Marchionne fu un genio sì, ma del marketing, in quel caso: primo, perché intuì come Barack Obama fosse invece pronto a stanziamenti miliardari – in nome del tanto declamato libero mercato statunitense e delle conseguenti, idiote normative europee sugli aiuti di Stato – pur di salvare Detroit e, secondo, perché trasformò la debolezza in forza, intervenendo per primo nel dibattito rispetto proprio agli aiuti di Stato, dicendo che «Fiat non chiedeva e non voleva niente». Per forza, non c’era più niente che il governo fosse disposto e nelle disponibilità di dare e, comunque, il Lingotto aveva già la carta di riserva pronta, tanto da diventare la sua core choice: diventare americana, fondere due debolezze, due aziende sull’orlo del fallimento, Fiat e Chrysler e sfruttare al massimo gli incentivi del governo e la propensione del mercato automobilistico Usa all’indebitamento allegro tramite il credito al consumo, anche e spesso subprime. 



Potrà sembrare impietoso, ma è la realtà. Ciò che è scandaloso è il silenzio generale al riguardo, quando con quattro grafici potrei smontare le agiografie in onda a reti e quotidiani unificati da 72 ore. Ma si sa, questo è un Paese strano. Un Paese in cui, incredibile ma vero, gli indici di ascolto televisivi e i dati di vendita di certi settimanali pruriginosi al limite del pornografico ci confermano come la mitologica “gente” abbia come principale passatempo osservare le vite degli altri dal buco della serratura della morbosità, ma che, quando sul letto di ospedale si trova il potente di turno, sfodera di colpo stomaci delicatissimi in fatto di rispetto e tutela della privacy. Si chiama ipocrisia e dovrebbe essere inserita in Costituzione, altro che il Fiscal compact. Chi ha criticato la prima pagina del Manifesto di domenica, oggettivamente urticante (ma non eravate tutti Charlie Hebdo, a proposito?), spesso lo ha fatto con in mano Diva e donna e in attesa di Chi l’ha visto? o di Barbara D’Urso. Quindi, per favore, almeno evitiamo di unire il danno della morale alla beffa dell’ipocrisia. 

E poi, scusate ma perché tanto interesse? In punta di diritto e di fatturato, Fca è un’azienda americana con sedi legali e fiscali a Londra e Amsterdam che crea posti di lavoro in America, come ha testimoniato la riconoscenza pubblica verso Marchionne di Barack Obama prima e Donald Trump poi, il quale lo ha definito in un tweet «il mio migliore amico» all’interno dell’industria automobilistica. Non vedo tutte queste beatificazioni laiche sulla stampa statunitense, britannica oppure olandese: eppure, Fca riguarda più loro che l’Italia, oramai. Ma la prova del nome non tarderà a venire. L’unico, reale interesse di Fca rimasto in Italia è a Melfi, dove si produrrà la Jeep. E, guarda caso, il nuovo amministratore delegato del gruppo è proprio quello che possiamo definire Mr. Jeep, Mike Manley. Punterà su Melfi oppure cederà alle sirene della Casa Bianca, la quale sta facendo più di una pressione perché la produzione di Jeep torni negli stabilimenti d’Oltreoceano, tanto per poter attaccare al muro dell’America great again un’altra testa d’alce, in vista delle elezioni di medio termine dell’autunno? 

Lo so, sono cose spiacevoli da sentire. Ma sono la verità. Piaccia o meno. Si può nasconderla, ma non si può negarla, per quanto ci si sforzi facendo appello alla pietà umana e altre categorie degne di miglior causa. E poi, accipicchia, nessuno che si faccia una domanda: come mai l’intera galassia Fiat ieri è crollata in Borsa, a inizio contrattazioni, quando addirittura il titolo Fca non riusciva a fare prezzo, salvo rientrare a quasi -5%? La logica ci dice due cose: primo, il nuovo management non convince gli investitori. Quindi, a Fca non sanno scegliere i manager, dote non proprio di cui andare fieri, se ci si vende come imprenditori globali. Secondo, il mercato ritiene che Marchionne garantisse un plus, il quid in più, per dirla alla Berlusconi. Quale, la genialità nel progettare nuovi modelli? La capacità nel gestire le relazioni sindacali? O, forse, il combinato congiunto di essere stato il più bravo a gestire i rapporti con la politica d’Oltreoceano nel periodo delle vacche grasse delle sovvenzioni statali e quello, più spiacevole, del fatto che la crisi finanziaria in arrivo – come testimoniato anche dal documento congiunto uscito dal G-20 dello scorso weekend – colpirà più duramente e per primi proprio i comparti più sensibili, ovvero quelli più esposti alla bolla e al leverage (vedi i tecnologici) e quelli più disfunzionali ma tenuti in vita da politiche espansive e monetariste delinquenziali? 

E qui entriamo nel merito del manager Marchionne, il quale dovrebbe avere come dote principale quella della programmazione, del saper guardare oltre, guardare al futuro. Alcide De Gasperi disse che uno statista è quello che pensa alla prossima generazione, non all’oggi o al domani: vale anche per le aziende. Anzi, in un mercato di competizione globale e sempre più spietata, vale ancora di più. E qual è il mercato automobilistico del futuro, a detta di tutti gli analisti e in base anche al piano di cambiamento della società – da esportatrice a fruitrici di servizi e consumi interni – presentato da Xi Jinping? La Cina. Qualcuno parla ancora anche di India, ma il combinato congiunto di crisi bancaria legata agli Npl delle banche a controllo statale e peggior siccità di sempre attesa nei prossimi mesi, picchieranno pesantemente sulle prospettive di crescita di Nuova Delhi, così come l’incauta scelta di fare affari proprio con Pechino bypassando il dollaro e utilizzando yuan sta già mettendo sotto pressione la rupia e le riserve della Banca centrale (a Wall Street sono indipendenti dalla politica, si sa). 

Bene, guardate questo grafico: vi pare che Fca sia posizionata bene nel mercato del futuro? E vi garantisco, non è nemmeno subito dopo l’ultima azienda presenta nell’infografica. Che management è stato, quindi, quello che si è disinteressato completamento delle quote di mercato da acquisire per il core business dei prossimi anni? Bravo? Illuminato e geniale come ci dicono i giornali in coro, Manifesto a parte? Oppure un management che ha pensato soltanto a massimizzare i profitti sfruttando l’onda lunga del momento, leggi il boom del settore automobilistico Usa garantito da incentivi statali e credito al consumo come se non ci fosse un domani e a condizioni stracciate? Ditemi voi. 

 

Cari lettori, proprio voi mi siete buoni testimoni: quante volte e in tempi non sospetti, ho denunciato da queste pagine il fatto che il mercato automobilistico americano fosse completamente drogato da credito al consumo e incentivi statali? In parte, molto minore, anche quello europee, visto che le finanziarie delle case automobilistiche partecipavano alle aste Ltro della Bce, manco fossero degli istituti di credito. Quante volte ho portato le prove del perverso sistema di boom&bust, tipico della teoria dei cicli della Scuola austriaca, in atto in quel comparto, a causa proprio dell’infinita politica espansiva della Fed (e delle altre Banche centrali)? Ovvero, sovra-produzione che poi avrebbe creato un eccesso di offerta, la quale – come era ovvio – si è poi sostanziata o nell’esplosione di una fenomeno subprime 2.0, con credito al consumo verso cani e porci, a prescindere dal rating di credito e cartolarizzazione di massa di quei prestiti da parte di finanziarie senza scrupoli e grandi gruppi bancari che le foraggiano o in piazzole piene di auto invendute, tanto che la vendita e l’affitto di quel tipo di aree è uno dei business più caldi del mercato real estate in Stati come la California. Signori, è la realtà. Per quanto la si voglia scacciare, utilizzando la prima pagina del Manifesto come scusa per pulirsi la coscienza. 

E sapete cosa sta succedendo d’altro in questi giorni e ore, proprio legato al contesto generale di omissione interessata di certe notizie in cui si è andata a inserire, suo malgrado, la drammatica vicenda personale di Sergio Marchionne e di cui vi ho appena parlato? Ve lo spiegano questi grafici, dai quali desumiamo principalmente tre concetti. Primo, anche quest’anno – anzi, quest’anno più che mai – i mitologici rialzi azionari che avrebbero dovuto essere la conferma della strutturalità della ripresa globale in atto saranno garantiti unicamente da buybacks azionari, figli legittimi delle emissioni obbligazionarie di massa garantite dalle Banche centrali. 

 

Secondo, in cima alla lista di quei buybacks ci sono i titoli del comparto tech – le altrettanto mitiche Faang – e i finanziari. Terzo e più importante, gli insiders – ovvero chi lavora dentro le aziende in questione – sta vendendo i titoli di cui è in possesso come non ci fosse un domani al parco buoi, tra cui molti fondi pensione che conosceranno presto la parola default. Mi chiedo e vi chiedo, se un dipendente o dirigente di un’azienda che sta di fatto trainando il mercato ormai da trimestri, scarica i titoli che ha in portafoglio – frutto di bonus, stock options, premi e integrativi – è solo perché risponde alla vecchia regola dei “vendi sui massimi” o perché sa che la bolla sta per esplodere? 

Perché nel primo caso, saremmo di fronte o a degli irresponsabili o a dei Rambo, a livello di coraggio, visto che hanno atteso contro ogni previsione che quei titoli sfondassero sempre di più ogni possibile record, trainando con loro nella cavalcata gli indici di riferimento. Ma come, Donald Trump e mezza stampa continuano a dire che le Borse e l’economia vanno bene, anzi che non sono mai andati meglio (mentre una fetta sempre meno esigua comincia a mettere le mani avanti) e questi vendono tutto, nemmeno fossero Lehman Brothers nel weekend del 15 settembre 2008? Sospetto, vero? Eppure, la stampa non ve lo dice. 

Come non vi dice quanto vi ho detto io rispetto a Marchionne e la sua gestione di Fca: nel primo caso, tutto è bello, i cieli sono blu e pieni di unicorni. Nel secondo, abbiamo solo agiografie acritiche e patetiche colate di melassa rispetto al ricordo personale che ogni grande firma del giornalismo italiano ha di lui, chi ci ha fatto merenda con pane e Nutella e chi ci ammirato un tramonto, simbolo di quella classe media che, se sparisce, porterà con sé anche l’acquirente medio della Panda. Roba da voltastomaco. Eppure, ormai dovrei esserci abituato. E voi?