Nel mondo anglosassone, c’è una bella definizione per descrivere efficacemente una situazione come quella che il mondo politico italiano sta vivendo: an accident waiting to happen, un incidente che aspetta solo di accadere. Il bilancio, al netto della quadra a dir poco raffazzonata raggiunta sulla nomina dei vertici di Cassa depositi e prestiti, è infatti disarmante: non un provvedimento economico al vaglio delle Commissioni, visto che mancano le coperture finanziarie, come ha ricordato per l’ennesima volta dal G20 il ministro Tria. Certo, c’è il “Decreto dignità”, ma, francamente, fossi un esponente della maggioranza non me ne farei troppo vanto e, anzi, cercherei di nasconderlo il più possibile. E il ministro Salvini può millantare spavalderia quanto vuole, promettendo sforature dai parametri europei per finanziare flat tax e reddito di cittadinanza (al netto della disputa tutta politica con Tito Boeri, non so se vi siete accorti, ma l’abolizione della Legge Fornero è sparita magicamente dai radar, come buon senso imponeva fin dall’inizio), perché i sondaggi danno forza contrattuale in seno alle coalizione, non in ambito europeo. 



E non vi sarà sfuggito il silenzio ammansito con il quale il titolare del Viminale ha accolto l’altro giorno il perentorio diktat giunto dal collega degli Esteri, Moavero Milanesi: fino a quando l’Ue non cambierà la missione Sophia, i porti italiani resteranno aperti. Punto. E il leader leghista non ha aperto bocca, salvo attaccare con la solita spocchia da orgoglio patrio ritrovato in qualche cassetto la proposta europea, riportata dal Financial Times, in base alla quale Bruxelles vorrebbe risolvere la questione migranti seguendo la ricetta turca: 6mila euro a persona accolta dai vari Stati. Come mai Matteo Salvini non è andato su tutte le furie con il titolare della Farnesina, lui che dal palco di Pontida, non più tardi di un mese fa, tuonava tronfio che «se i porti italiani si chiudono, lo decido io»? Perché il tempo della ricreazione sta finendo. E anche della propaganda a costo zero. Si sta raschiando il barile. Perché sapete quando è prevista la prossima riunione tecnica per cominciare a parlare di modifiche del piano Sophia? Fra cinque settimane. Di fatto, con il picco della stagione degli sbarchi conclusa e l’emergenza finita, salvo un aggravarsi tutt’altro che da escludere della crisi monetaria ed economica turca (ieri la decisione della Banca centrale di mantenere inalterati i tassi ha fatto letteralmente inabissare la lira per l’ennesima volta, con l’inflazione che a giugno ha toccato il 15,4% su base annua) che porterebbe quasi certamente Erdogan a sfoderare l’arma di ricatto della riapertura della rotta balcanica. 



E sta finendo anche il tempo in cui questo Paese potrà perdersi in sterili discussioni sull’ultima idiozia partorita dalla mente fantasy di Davide Casaleggio (il quale, però, non ha tutti i torti rispetto al Parlamento che non conterà più nulla, tanto che un esponente del suo Movimento si è portato avanti, svolgendo il suo compito di delegato del popolo da una barca a vela), la sabbia nella clessidra è sempre meno e scende sempre più in fretta. E a sancirlo ufficialmente è stato proprio il G20 tenutosi lo scorso weekend in Argentina, praticamente ignorato dalla stampa, troppo occupata a costruire altari votivi al genio di Sergio Marchionne: in quel consesso, di fatto, è stato dichiarato chiaro e tondo che qualcosa di praticamente ingestibile nella sua magnitudo è alle porte, tale da portare a una ridiscussione drastica di tutte le stime di crescita finora sbandierate come vessilli trionfanti al palio di Siena. Erano balle, ve lo dico da mesi e mesi e tali si stanno rivelando. Ma ovviamente, la scusa è pronta. E dopo Bce, Fmi e Bri, ecco che anche i simposi più politici mettono le mani avanti: e dopo il Consiglio Ue di fine giugno, anche il G20 ha voluto sottolineare come sarà la crisi del commercio globale, innescata dalla guerra dei dazi fra Usa e resto del mondo, a far deragliare quanto di straordinario avevano ottenuto invece gli sforzi congiunti di Banche centrali e governi nazionali. 



Insomma, è colpa di Trump. E quando cominciano a circolare in Europa grafici simili, significa che è giunta l’ora di far partire la grande operazione di imbonimento dell’opinione pubblica, la stessa che mentre comincerà ad allarmarsi continuerà però a comprare titoli alle loro quotazioni record, gli stessi titoli che i professionisti dell’investimento scaricano come fossero kriptonite per Superman. Le mitologiche Faang in testa. Il grafico parla chiaro: nella classifica dei rischi percepiti come principalmente pericolosi per l’economia europea, le tensioni sul commercio globale sono saldamente al primo posto, passate dal 39% all’attuale 70% nell’arco di un solo sondaggio Bloomberg. 

 

In effetti, i media stano picchiando duro al riguardo. Ogni giorno, pagine e pagine dedicate a elenchi dei nuovi prodotti inseriti nelle “liste nere” di Usa, Cina e Ue. Ogni giorno terrorismo spiccio, senza che un solo grande media si sia preso la briga di andare a vedere quale sia la prima vittima della politica di Trump, ovvero chi sta pagando il prezzo maggiore all’unica manovra già entrata realmente in vigore, i dazi sull’import di metalli – acciaio e alluminio – dalla Cina. La manifattura americana, la quale ha conosciuto un’impennata dei prezzi alla produzione, proprio a causa dell’aumento delle valutazioni delle materie prime dovuto ai dazi voluti dalla Casa Bianca. Strano modo di fare America great again: a meno che quella non sia davvero la finalità ultima. E stando alla sparata di Trump contro la Fed e la sua politica di rialzo dei tassi che penalizza l’economia Usa rispetto a quelle “manipolate” dalle monete di Cina ed Europa, il dubbio che anche lì si stia appunto aspettando un incidente alle porte per poter agire di conseguenza cresce di intensità. 

A meno che non si voglia credere davvero alle balle di un Paese indebitato fino al collo come gli Usa che, alla vigilia di un 2019 il cui Budget è tutto a deficit e richiederà quindi emissioni record del Treasury, va a dichiarare guerra ufficialmente a chi detiene oltre 1,3 triliardi del suo debito e garantisce con il Qe interno il bancomat globale di impulso creditizio in dollari. Ma sapete com’è, ammettere questo significa mettere in discussione una ventina d’anni di narrativa neo-con e idiozie sul “Nuovo secolo americano”, paccottiglia ideologica verniciata con lo smalto dell’esportazione di democrazia e lotta globale al terrorismo che ha fatto la fortuna di molti grandi “commentatori” e maître à penser all’amatriciana. Ma di queste cose, così come della reale situazione sui mercati, abbiamo parlato fino allo sfinimento su queste pagine, inutile tornarci su. 

Più interessante è il bassissimo profilo con cui in Italia si sta trattando il cosiddetto scandalo Benalla che ha investito come un fulmine a ciel sereno il presidente francese, Emmanuel Macron, mandandogli di traverso il successo ai Mondiali di Russia. La vicenda, nei suoi contorni generali, è nota: Alexandre Benalla è la guardia del corpo personale dell’inquilino dell’Eliseo e, stando a un video comparso dal nulla la scorsa settimana, al termine di un corteo di celebrazione del 1 maggio a Parigi avrebbe pestato a sangue un manifestante, vestito da poliziotto. In sé, già una cosa di una gravità inaudita. Con il passare dei giorni, però, ecco che i particolari emersi hanno reso il quadro ancora più inquietante. Stando ai media francesi, infatti, Alexandre Benalla aveva addirittura le chiavi della casa di campagna dei Macron: una vicinanza con la coppia presidenziale che andrebbe troppo al di là del semplice lavoro di un bodyguard, per il quale gli era garantito un salario di oltre 10mila euro al mese e un’auto dotata di sirena. Ma non basta: Benalla viveva infatti in un appartamento di servizio dell’Eliseo, dove sarebbero in corso lavori da 180mila euro per unificarlo a un altro appartamento, il tutto per portare la superficie calpestabile a più consoni 300 metri quadrati. Vi ricordo che parliamo di una guardia del corpo, non di un consigliere diplomatico. Anche perché gli “appartamenti della Repubblica”, come vengono definiti, accolgono appunto persone del livello del Capo di stato maggiore, del segretario generale dell’Eliseo o altri collaboratori d’importanza cruciale per lo Stato. 

C’è però un precedente, inquietante per Macron. Quelle stanze avevano infatti ospitato anche la figlia segreta dell’ex presidente Francois Mitterand, Mazarine. Ovviamente, unite tutto questo alla già pruriginosa attenzione per la differenza di età fra Emmanuel Macron e la moglie ed ecco che la domanda dell’opinione pubblica, fomentata dai media, giunge spontanea: chi è davvero Alexandre Benalla? La domanda invece, a mio avviso, è un’altra. Anzi, due. Primo, perché ora? Secondo, cui prodest? Perché signori, mentre i soliti noti inzigano dubbi da settimanale scandalistico, in Francia sono già in corso un’inchiesta ordinaria e due Commissioni parlamentari al riguardo. 

Ed ecco, ultima in ordine di apparizione, ma prima per pesantezza dell’accusa, la deposizione di lunedì davanti all’organismo d’indagine dell’Assemblea Nazionale del prefetto di Parigi, Michel Delpuech: dopo aver dichiarato di non essere mai stato “sollecitato” per autorizzare Benalla a partecipare alle operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico, ecco che il rappresentante del governo scaglia il suo atto d’accuso contro ciò che ha definito «derive individuali inaccettabili, condannabili, in un retroterra di favoritismi malsani”. Insomma, un’accusa capace di far saltare un capo di Stato come un tappo di champagne a Capodanno. Soprattutto in un contesto di dure accuse e scaricabarile verso l’Eliseo da parte anche del ministro dell’Interno, il quale ha sì ammesso di sapere del filmato su Benalla dal 2 di maggio, ma ha anche detto di non essersi più occupato del dossier. Un potenziale reato per la legge francese, che obbliga qualsiasi pubblico ufficiale a conoscenza di un reato alla sua denuncia ma anche un segnale politico chiaro, cui si è unita la clamorosa sconfessione e presa di distanza pubblica dalle azioni di Macron anche da parte del suo stesso partito, En Marche! 

E a cosa ha portato, come atto pratico, questo scandalo, al di là del licenziamento, della denuncia e dello stato di fermo di Benalla? «Ne riparliamo dopo l’estate», ha dichiarato il ministro per i Rapporti col Parlamento e delegato generale del partito di maggioranza En Marche!, Christophe Castaner, durante la conferenza dei capigruppo a Parigi, lunedì pomeriggio. A cosa si riferiva? All’importante progetto di riforma costituzionale che doveva approdare proprio in questi giorni all’Assemblea Nazionale e che, invece, dovrà attendere l’autunno. Qualcuno, dopo averlo usato, sta scaricando il “sacrificabile” capro espiatorio Macron, dopo che la sua fulminea calata dall’alto ha evitato il rischio più grande, ovvero quello di un effetto Trump-Brexit alle presidenziali dello scorso anno, con Marine Le Pen all’Eliseo? I sondaggi parlavano chiaro già nelle scorse settimane: il gradimento di Macron era in picchiata ai minimi storici, oltretutto anche presso la base elettorale che è stata la colonna portante della sua vittoria, la Confindustria francese, blandita con la promessa della riforma sulla legislazione del lavoro che ha visto per mesi la Francia paralizzata da scioperi, ma che, alla fine, ha visto la luce. Ora, poi, arriva questa decisione, destinata a mantenere il dibattito parlamentare (e pubblico-mediatico) concentrato sul caso Benalla fino all’autunno, depotenziando di fatto anche gli scioperi dei trasporti che da mesi paralizzano il Paese e che alla sola Sncf, le ferrovie, sono già costati oltre 800 milioni di euro. 

Qualcuno vuole lasciare Macron sulla graticola, attendendo il suo beau geste, le dimissioni, depotenziando ogni altro allarme reale e, soprattutto, preparando il terreno a qualcosa di emergenziale per l’autunno? Macron come Trump, ovvero risposta a due emergenze – in un caso il populismo di destra del Front National, nell’altro la rabbia contro le élites impersonate del clan Clinton e dal Partito Democratico -, tamponate le quali e create le condizioni per un reset politico in base ai desiderata dei vecchi apparati, nel frattempo “ripuliti” e tornati presentabili proprio grazie agli errori del “nuovo che avanza”, ora sono pronti a guidare il patibolo politico del capro espiatorio? Viene da chiederselo, almeno nel caso di Macron. Perché se gli scandali accadono, appare strana la tempistica e il fatto che tutti sapessero – Benalla era onnipresente, anche sul pullman della nazionale di calcio appena trionfante a Mosca e sempre in ruoli non usuali per una guardia del corpo, ma nessuno ha avuto nulla da ridire, polizia in testa -, ma soltanto ora abbiano trovato il fiato non solo per denunciare, ma anche per scaricare tutta la responsabilità sull’Eliseo: non dico il martirio, ma, solitamente, si cerca di “coprire” fin che si può chi ti ha garantito la posizione che ricopri, portando un partito nato dal nulla al vertice dello Stato. Anche solo per interesse, se non per fedeltà. Invece, puff, di colpo uno straccio vecchio da buttare, dopo aver dato una bella pulita ai pavimenti lordi della Republique. 

D’altronde, anche il buon Hollande è caduto non per la sua conclamata incapacità politica, ma per uno scandalo di corna. Strano però. Perché un Paese dove vige il segreto di Stato e militare sul traffico d’armi che avrebbe visto addirittura coinvolti i servizi segreti nella fornitura di fucili usati nella strage del Bataclan (ragione che ha portato a una più stringente attenzione in sede europea sul tema, la quale di conseguenza sta rallentando e complicando l’iter della legge sulla legittima difesa in discussione al nostro Parlamento), risulta poco credibile nel non riuscire a far sparire un video che può costare la carriera e le dimissioni nientemeno che al presidente della Repubblica, proprio mentre il suo appeal verso l’opinione pubblica è al minimo storico. A meno che non si voglia farlo uscire, perché il tempo e il compito di monsieur Macron, nel frattempo, sono terminati. Tanto più che, ai tempi di Ustica, Parigi si dimostrò maestra nell’arte del depistaggio. O, invece, lo sta facendo – e ai massimi livelli di eccellenza – anche oggi, pur dissimulando meravigliosamente l’intera faccenda con l’aurea pruriginosa dell’abuso di potere e del rapporto ambiguo? 

Una cosa è certa: davvero pensavate che in Francia potesse passare una riforma della Costituzione che comportasse un taglio dei parlamentari a una quota di proporzionale nella legge elettorale? Se ne riparlerà dopo l’estate. Cioè mai. Perché in autunno arriveranno al pettine molti nodi, prima le elezioni in Baviera, nuovo banco di prova per la tenuta del governo Merkel, poi l’approdo dei provvedimenti economici al Parlamento italiano (temo con ricomparsa in grande stile di Mr. Spread) e, magari, la Francia con un presidente dimissionario, quando il beaujolais nouveau sarà appena arrivato sulle tavole. E di lì a poche settimane, le elezioni di mid-term negli Usa. Quando dici il tempismo. Il grande reset delle élites è iniziato e non sarà un processo indolore. L’abbassamento repentino delle cresta di alcuni ministri italiani, lo certifica. Come la sparizione dalla scena, dopo settimane di presenzialismo parossistico, di alcuni loro apologeti e presunti ideologi e “intellettuali d’area”. Deve esserci un’epidemia di influenza anticipata nell’aria.