La morte prematura di Sergio Marchionne chiude, in modo traumatico, non soltanto “l’era Marchionne” alla Fiat. Quest’ultima non è più tale da anni (Fiat Chrysler Automobiles è una holding di diritto olandese con quartier generale a Detroit) e la scomparsa del manager italo-canadese appare ora una milestone per molti versi conclusiva di 119 anni di storia della “Fabbrica Italiana Automobili Torino”. 



Poco importa se, quando e come Fca procederà a un riassetto, peraltro già largamente annunciato con Marchionne ancora in vita e al comando. Ai mercati, sicuramente, interessa principalmente questo: le operazioni straordinarie che potranno puntellare il tonfo in Borsa degli ultimi giorni. L’area “Emea” di Fca — cioè la “vecchia Fiat” — verrà ceduta a un gigante orientale (la coreana Hyundai in testa — in questa fase geopolitica — su ogni alternativa cinese)? La “vecchia Chrysler” (affidata al capo anglosassone della Jeep, Mike Manley) è pronta per essere incorporata in Ford o in Gm, comunque nell’America First trumpiana? La Ferrari — questa è l’unica certezza — resterà in Exor, la cassaforte familiare degli Agnelli.



Il sistema-Italia, naturalmente, non può essere disinteressato al destino della piattaforma industriale di Melfi o delle residue attività di Mirafiori; della Cnh, della Comau o di Magneti Marelli; o anche della Juventus o della partecipazione nel polo editoriale Gedi. Sono decine di migliaia di posti di lavoro, sono pezzi di Made in Italy. Ma c’è dell’altro con cui fare i conti e non sarà soltanto una questione per addetti ai lavori: analisti finanziari, uomini di governo, sindacalisti, editorialisti e storici. 

Il minuto di silenzio osservato ieri in Parlamento per Marchionne non è stato fuori luogo: la “finis Fiat” è un avvenimento civile per il Paese. Come ha giustamente osservato il presidente della Repubblica Mattarella, Marchionne è stato il capo (ultimo e sicuramente degno) di un gruppo la cui dimensione andava “al di là dell’orizzonte”. Il vuoto di leadership lasciato dal Ceo scomparso in Fca è per molti versi il vuoto politico-economico lasciato dalla Fiat in Italia. Un vuoto che alcuni, non senza qualche ragione, misurano nei posti di lavoro bruciati negli ultimi decenni a Mirafiori: da oltre 50mila a poche migliaia. Ma questo sarebbe al massimo tentare un bilancio (rozzo e riduttivo) del lungo tramonto Fiat: quello che proprio Marchionne ha evitato si trasformasse in un disastro, anche per l’Azienda-Italia.



Una figura molto “arci-italiana” come il figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada e tornato a Torino per tenere a galla lo storico gruppo-leader del suo Paese, lascia in eredità scelte di cambiamento che interpellano in fondo l’intero Paese: i suoi cittadini di oggi e la loro memoria contemporanea. Un Paese per il quale “grande industria” e “automobile” sono state a lungo sinonimo di “Fiat”; “ricostruzione e boom” (cioè la rinascita della Repubblica come democrazia di mercato) sinonimo di “motorizzazione”; “relazioni sindacali” (“statuto dei lavoratori” oppure “marcia dei 40mila”) sinonimo di “metalmeccanici del Lingotto e di Mirafiori”: mentre Gianni Agnelli è stato per mezzo secolo una sorta di re senza corona, l’unico italiano che poteva davvero permettersi di girare il mondo non da emigrante, trattando alla pari con i potenti della politica e della finanza.

Il lascito storico di un uomo che non ha fatto altro che lavorare duramente ogni giorno fino all’ultimo, appare scabro e spigoloso come il suo stile manageriale. Marchionne ha detto all’Italia che nel ventunesimo secolo non avrebbe potuto più contare sulla mega-industria fordista e novecentesca (Donald Trump ha telefonato a Jaki Elkann per le condoglianze: ma Marchionne — a Detroit come a Torino — non è mai stato un difensore di “carrozzoni” nazionali, meno che mai pubblici. Chissà cos’avrebbe fatto l’anno prossimo, una volta lasciata Fca: di certo avrebbe resistito alle corti già asfissianti dei giga-fund oppure di tycoon come lo stesso Silvio Berlusconi).

Marchionne ha detto all’Italia che la Fiat non era più un “potere forte”, “il” potere forte. Che, cioè, l’Italia avrebbe dovuto cavarsela senza più “poteri forti” a indirizzarla o garantirla. Per lui non c’era Mediobanca, non c’era il network mediatico, non c’era lobbismo politico (peccato non vedere l’avvocato in maglione alle prese con l’Italia gialloverde e l’Europa da ricostruire: lascia un vuoto anche su questo versante).

Marchionne, nella sua azione più tagliente e dibattuta, ha detto all’Italia “di Pomigliano” che l’era del posto/costo del lavoro come “variabile indipendente” era finita per davvero: ed era un’epoca che aveva aperto negli anni 70 lo stesso Agnelli come presidente di Confindustria al tavolo con il leader della Cgil, Luciano Lama. Ha detto che “la crisi della produttività del lavoro” in Italia non era astrusa questione da economisti, ma un’emergenza reale, e non per ragioni ideologiche o per tattica sindacale: era il mondo che intorno stava cambiando.

Prima di porre domande a parole, Marchionne ha provato a dare risposte nei fatti. Le domande possono restare sgradevoli e le sue risposte possono essere contestate. Ma quelle domande e quelle risposte restano. E le ha poste lui.

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