Per come vedo io le cose, se proprio devi prendere una cantonata, meglio prenderla grossa. Per due motivi: primo, significa che almeno hai osato ed è meglio sempre azzardare che restare nella zona grigia ad attendere una grazia che non si sta facendo nulla per meritare. Secondo, perché imparerai qualcosa dal tuo errore. E nel mio articolo di ieri, la cantonata l’ho presa di quelle storiche. Perché al netto dei proclami ufficiali, l’incontro fra Donald Trump e Jean-Claude Juncker ci ha detto tantissimo. In primis, sul futuro dell’Europa. E questo, senza nemmeno dover affrontare ufficialmente il tema. L’Ue, intesa come burocrazia politica che risponde a interessi ed equilibri precisi, ha ufficialmente scaricato la Germania. Di più, l’asse renano con la Francia – nato subito dopo la vittoria di Macron alle presidenziali – è ufficialmente morto: da architrave delle riforme ultimative dell’Unione a mera unione di due debolezze, destinata per questo a sparire. Di più ancora, a mio avviso Washington ha chiaramente indicato la strada a Bruxelles e anche il nome di chi dovrà prendere per mano i destini dell’eurozona, gestione del Brexit in testa: Donald Tusk, non a caso il primo a reagire con turbamento alla frase di Donald Trump alla vigilia del vertice Nato – «L’Ue è nemica degli Usa» – e da sempre allineatissimo alla narrativa russofoba di Alleanza Atlantica e Deep State statunitense. 



Infine, indirettamente l’incontro di mercoledì ci ha detto molto anche del futuro dell’Italia: è partita, infatti, ufficialmente la campagna per depotenziare politicamente il ministro Salvini. Non a caso, come contorno alla visita di Juncker a Washington, nel nostro Paese si sono consumati due atti che parlano chiaro. Primo, l’interventismo senza precedenti del ministro degli Esteri, Moavero Milanesi, prima sull’apertura dei porti italiani fino a quando l’Ue non riformerà il piano Sophia e, secondo (strategicamente più importante), la netta sconfessione della posizione filo-russa del ministro dell’Interno riguardo l’annessione della Crimea: «L’Italia si attiene alle linee del diritto internazionale», ha tagliato corto il titolare della Farnesina. E, particolare non di poco conto, il tutto in contemporanea con una dichiarazione pressoché simile espressa dal numero uno del Dipartimento di Stato Usa, Mike Pompeo e con l’anticipazione della copertina di Famiglia Cristiana contro la linea del Viminale sull’immigrazione e il suo rappresentante. 



Segnali. Ma di una chiarezza lampante. Cui Salvini ha risposto con la classica disperazione dell’impaurito travestita da risolutezza: ignorare la direttiva Ue dell’altro giorno e ordinare ieri lo sgombero del campo rom Camping River di Roma. Più chiaro di così. La luna di miele fra Washington e Mosca è durata un battito d’ali dopo il vertice di Helsinki. E le cose non potranno che peggiorare. Anche per noi. Quali sono stati, infatti, i punti qualificanti dell’accordo per zero dazi e zero tariffe raggiunto da Jean-Claude Juncker e Donald Trump? La tassazione di sfavore resterà solo per le automobili (utilizzando la formula molto sottile del ricatto, visto che si parla di «ipotesi di sanzioni sul settore sospesa durante il negoziato», come dire che gli Usa sanno dove colpire per fare male al cuore dell’Ue politica e industriale, quindi meglio negoziare senza troppe pretese) e un impegno ufficiale dell’Ue ad acquistare più Lng, gas naturale liquefatto, dagli Stati Uniti. Insomma, una politica dichiaratamente anti-tedesca. E anti-russa. 



Se infatti c’è qualcuno che patirà per i dazi sulle auto, questa è la Germania, soprattutto nel comparto della cosiddetta “alta gamma”. E il fatto che Bruxelles abbia dato via libera all’acquisto di gas statunitense, decisamente più caro di quello russo, non fosse altro che per i costi di trasporto via mare, è un chiaro segnale a Berlino e al suo progetto Nord Stream 2 per l’arrivo diretto di gas dalla Russia, un qualcosa ritenuto «pericoloso per la sicurezza e l’indipendenza energetica europea» dal Dipartimento di Stato. Soprattutto, perché il percorso bypassa l’Ucraina, lo stesso Paese cui il Pentagono ha appena venduto armi pesanti per 200 milioni di dollari. Alla faccia del chiarimento fra Trump e Putin. Oltretutto, il consigliere speciale (e neocon d’antan), John Bolton, ha sfruttato la media opportunity della conferenza stampa congiunta a fine meeting per comunicare che il famoso secondo incontro fra il presidente statunitense e quello russo non si terrà in autunno come prima annunciato, ma, più genericamente, nel 2019, «quando sarà terminata la caccia alle streghe». 

Ora, una domanda mi sorge spontanea: in base a quale mandato ha negoziato e siglato accordi di questo valore commerciale ma soprattutto politico, il buon Jean-Claude Juncker (e finché se lo chiede un signor nessuno come il sottoscritto non c’è problema, ma quando a esigere ufficialmente chiarimenti in merito è il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, a detta del quale «non si può trattare sotto pressione”, la questione cambia e non poco)? Il quale, temo, sfrutta la nomea di ubriacone e le performance traballanti tipo quella sfoggiata al vertice Nato per giocare la carta del finto tonto. Ma Juncker è più furbo e pragmatico di quanto sembri. E questo deve portarci a una seconda, più inquietante domanda: di fronte a quale proposta a cui non si può dire no si è trovato l’altro giorno il capo della Commissione Ue, per accettare quelle condizioni e trovare, a tempo di record, un accordo vincolante per tutti i 27 Paesi, senza che nessuno si sia espresso al riguardo? 

E attenzione, perché tornando all’asse renano, l’ex muro portante dell’Ue, non va scordato che in perfetta contemporanea con l’incontro di Washington, varcava il portone dell’Eliseo l’emissario numero uno di Vladimir Putin nel mondo, il potente ministro degli Esteri, Serghei Lavrov. Ragione ufficiale dell’incontro fra il titolare della diplomazia russa ed Emmanuel Macron era la situazione in Siria, ma anche un bambino capirebbe che c’era altro di cui parlare: in una sorta di dejà vu del patto d’acciaio con la Merkel, il presidente francese ha provato a unire due debolezze per farne una forza. La sua, travolto com’è dallo scandalo della sua ex guardia del corpo che lo ha visto scaricato da tutta la nomenklatura di potere e mediatica francese (la stessa che lo ha portato in palmo di mano all’Eliseo) e quella russa, tornata nell’occhio del ciclone della campagna criminalizzatrice statunitense ad uso interno in vista delle elezioni di mid-term. 

Insomma, Francia e Germania – fino a poco tempo fa, rispettivamente pietra angolare Usa in Europa e nuovo migliore amico di Washington – hanno fiutato l’aria che tira e hanno dato vita a un riavvicinamento repentino e strategico verso la Russia, mentre il capo, di fatto, dell’organismo di maggior potere dell’Ue sanciva un patto di totale asservimento agli interessi economici e geostrategici americani, di fatto chiudendo la porta in faccia al rapporto con Mosca, ma anche raffreddando e non poco quello con Pechino in chiave anti-dazi, il tutto solo a dieci giorni dall’apertura di credito del Dragone dopo il Vertice Europa-Cina tenutosi a Bruxelles. E, soprattutto, dopo che il ministro dell’Economia italiano aveva ventilato la possibilità di sfruttare i suoi buoni uffici e i suoi contatti a Pechino per cercare acquirenti liquidi per il nostro debito pubblico, in vista della fine del Qe. 

Ultimo tassello ma di fondamentale importanza: lunedì Giuseppe Conte sarà ospite ufficiale di Donald Trump alla Casa Bianca, invito che era scattato dopo il colpo di fulmine alla prima uscita ufficiale del primo ministro italiano al G7 dello scorso maggio. Alla luce della questione Lng concordata con Juncker, l’appello dell’altro giorno del Dipartimento di Stato affinché il progetto del gasdotto Tap in Puglia venga assolutamente ultimatum va letto sotto un’altra prospettiva, ma siamo certi che quello sarà l’unico diktat che Washington ci imporrà, alla vigilia dei botti d’autunno? Per quanto la Lega possa vantare (o millantare?) buoni rapporti Oltreoceano, non sarà che Salvini – esattamente come Macron – abbia compiuto egregiamente il suo ruolo di guastatore, ma ora cominci a dare noia, recitando a soggetto e fuori copione? Pensateci. E, dopo lo scandalo a orologeria della guardia del corpo e l’assist diplomatico fornito dalla Russia per ritrovare un minimo di credibilità politica con il vertice all’Eliseo con Lavrov, non vi pare che anche gli strani e imbarazzanti incidenti alla cerimonia per le celebrazioni parigine del 14 luglio vadano magari letti in altro modo? E le figuracce pressoché quotidiane e mondovisione al Tour de France? 

A tutto questo, va unito questo, ovvero l’asso nella manica che Washington temo intenda giocarsi subito prima del voto di novembre: non vi pare strano l’aumento esponenziale di importazioni petrolifere Usa dall’Ecuador nell’ultimo periodo? No, se casualmente da Quito arriva la notizia che il governo starebbe valutando di terminare la protezione del capo di WikiLeaks, Juliane Assange e di consegnarlo alle autorità britanniche. Le quali, tempo zero, lo estraderebbero negli Usa, visto che il recentissimo, rinnovato rapporto di amicizia con Trump è attualmente l’unica garanzia sulla vita politica di Theresa May e del suo traballante governo, essendo Boris Johnson un burattino del Deep State in cerca della strada per il 10 di Downing Street. E con anche solo la prospettiva di Assange in un carcere federale, sarebbe come giocare a poker con gli avversari dotati di specchio dietro le spalle. 

 

Sono tempi senza precedenti per il riassetto dell’ordine politico ed economico globale, tempi paragonabili al 1989 e alla caduta del Muro. Il “governo del cambiamento” sta andando in pezzi, ogni giorno ne abbiamo la riprova e il viaggio di Giuseppe Conte negli Usa cade a fagiolo: dubito che la sparata senza precedenti degli industriali veneti contro Di Maio (il classico messaggio a nuora perché suocera intenda, diretto a Salvini e al suo “tradimento” del Nord produttivo) sia arrivata a caso. Così come la copertina, decisamente estrema, di Famiglia cristiana. Qualcuno si chiedeva se l’esecutivo, così com’è, avrebbe mangiato il panettone. C’è da cominciare a chiedersi se mangerà le prime caldarroste. Giuseppe Conte, l’altro giorno, ha convocato una conferenza stampa al suo ritorno da Washington, per fare il punto. Occorrerà seguirla con molta attenzione. E leggendo fra le righe. L’Italia, come centro del Mediterraneo, è il nuovo interlocutore privilegiato su cui gli Usa contano, dopo l’addio al vecchio asse renano: proprio come ai tempi della Cortina di ferro. E degli “anni di piombo”. Ma per farlo, serve un governo totalmente e convintamente europeista, visto che il nuovo direttore d’orchestra europeo sarà Donald Tusk con un’agenda e un mandato precisi. E finora, il governo non ha dato grossa prova di amore verso la bandiera blu e stellata. 

Il gesto di ieri di Salvini, quello sgombero del campo rom da leggere come un calcio negli stinchi a Bruxelles, potrebbe essere stata l’ultima, disperata mossa elettorale del capo del Viminale in vista del voto anticipato. Lo ha deciso il padrone d’Oltreoceano.