La locomotiva Usa corre a pieno regime. Il Prodotto interno lordo nel secondo trimestre è salito del 4,1%, in forte accelerazione dal +2,2% dei primi tre mesi dell’anno. Occorre risalire all’autunno del 2014 per trovare un numero più elevato (il 4,9%). E poco conta che le previsioni fossero ancora più ottimistiche. Donald Trump, del resto, aveva messo le mani avanti. “C’è chi parla del 5,3% – aveva detto alla vigilia -, ma non ci credo. Qualsiasi numero oltre il 3% è Ok”. Il presidente sapeva di poter contare su carte segnate: l’aumento dei consumi e degli investimenti stimolati dal cash generato dalla riforma fiscale. Oltre che dagli acquisti di soia e di altri prodotti Usa effettuati da operatori che hanno voluto anticipare i dazi annunciati dal presidente. Un mix di fattori da lui coltivati con l’obiettivo di spingere la crescita al massimo prima delle elezioni di novembre. 



La scommessa sembra sensata, soprattutto se la tregua sui dazi dell’auto con l’Unione europea produrrà buoni frutti. A dare una mano a Trump, per l’occasione, è stata la sua grande nemica Angela Merkel, che al solito si è rivelata politica di razza, lasciando alle sue spalle le velleità di grandeur di Emmanuel Macron, fautore della linea dura difesa dall’eurocrazia di Bruxelles. È stata frau Merkel, preoccupata per uno scontro condotto sull’auto, l’industria di punta della Repubblica Federale, a concepire il compromesso che ha reso possibile la tregua sui dazi sulle quattro ruote basata sull’acquisto di gas dall’America e di molta soia, quella che i cinesi ormai non comprano più per colpire gli agricoltori del Midwest e danneggiare così la politica della Casa Bianca. 



I segnali di pace sono stati raccolti dal Presidente che si è affrettato a brindare a un nuovo successo (presunto) della diplomazia muscolare. Trump, dopo aver sollevato questioni a non finire su tutto lo scacchiere internazionale, ha bisogno di portare a casa qualche successo o, quanto meno, di non scendere in guerra con l’industria dell’auto di Detroit. Per questo ha deciso di aderire all’invito di Angela Merkel, da lui detestata quantomeno perché alfiere di una visione global che non può vedere. 

Trump può anche preferire in cuor suo un’Europa dei sovranisti, ma, risolte le questioni di soldi, si può continuare a convivere con la Merkel a condizione che questa non faccia troppo fronte comune con la Cina. Oggi l’America chiede all’Europa di schierarsi sull’Iran. Domani le chiederà di schierarsi sulla Cina. L’Europa cercherà di mantenere aperte le porte a Iran e Cina, ma, alla fine, graviterà sempre verso gli Stati Uniti più che verso Pechino.



Di qui una tregua destinata a durare nei prossimi mesi. Le conseguenze? Senz’altro positive per i listini azionari di Wall Street e della Germania, ma anche, di rimbalzo, per la manifattura italiana. C’è però una controindicazione: cade un ostacolo alla politica di aumento dei tassi Usa. Non resta che sperare che la missione di Mario Draghi proceda senza intoppi fino alla meta garantendo quella politica ultraespansiva che la Bce, come ha confermato Draghi, manterrà nei prossimi 12 mesi. 

All’apparenza non cambia nulla: ma sotto la cenere le varie economie si stanno attrezzando per un confronto che non sarà indolore, come lascia intendere la svalutazione competitiva dello yuan, in attesa di accelerare sulla riconversione ai consumi interni e aumentare ulteriormente le spese a sfondo militare, non esclusi i test sull’intelligenza artificiale.