L’agguerrita batteria di denigrazione preventiva e aprioristica, attestata contro il governo giallo-verde, troverà materia facile sul “decreto dignità” con cui Luigi Di Maio, pluriministro e vicepremier del governo Conte, è uscito ieri sera dall’angolo. Ma è meglio andar cauti con il semplicismo perché l’uomo, per quanto inesperto, è furbo e ha molta sensibilità politico-sociale. Per spiegarci: con la sua levata di scudi attorno al caso dei rider delle consegne di pasti a domicilio – irrilevante sul piano macroeconomico, sono circa 10mila, meno dei dipendenti Ilva, quanto mediaticamente notevole – aveva già ripreso il centrocampo dell’immagine. E il fuoco di sbarramento contro le restrizioni per i contratti a termine – da ieri decreto legge – nasce da motivazioni uguali e contrarie a quelle che invece trivellano le iniziative sul fisco. Quindi si contraddicono. Spieghiamoci.



Di Maio rileva che ci sono troppi abusi nei contratti a termine e stringe i bulloni che li regolano. Commentano i sapienti: è solo velleitario, in quanto “non saranno i maggiori vincoli sui contratti a termine, per quanto condivisibili, a frenarne l’abuso perché saranno facilmente aggirabili” (Repubblica). Come dire: inutile punire il furto, perché tanto i ladri ci saranno sempre. Sul fronte fiscale, le critiche contro l’abolizione del redditometro, dello spesometro e dello split payment seguono la logica opposta: si pretende che sia un errore smontare norme di natura burocratica introdotte per combattere l’evasione dopo averne constatato l’irrilevanza contro gli evasori e l’oppressività contro le persone perbene: “perché in questo modo si rinuncia alla lotta all’evasione”. Come dire: anche se i ladri ci saranno sempre, moltiplichiamo gli antifurti.



Mettiamoci d’accordo: ogni intervento va valutato in sé. Per gli imprenditori – parlando di quelli perbene, naturalmente – la flessibilità è uno strumento “buono” che non va usato speculativamente ma solo per ottimizzare l’occupazione; per gli imprenditori che speculano, è vero il contrario. Per chi paga le tasse coscienziosamente, redditometro e split sono solo odiose incombenze burocratiche che complicano una strada sulla quale comunque già camminano, per gli evasori sono solo regole in più da aggirare. Dunque, bando agli ideologismi.

Si diceva che Di Maio ha battuto un colpo. Sul fisco, è palese, con due mosse contro la burocratizzazione inefficace delle misure antievasione: se ne misureranno gli effetti a breve, ma certo ogni norma fiscale in meno è una boccata d’ossigeno per i contribuenti più maltrattati d’Europa, gli italiani. Il vero punto dolente del decreto dignità approvato ieri è il riordino del Jobs Act, con una premessa. Le classificazioni statistiche sono diventate, nell’epoca dei social, uno strumento di narrazione potentissimo e quindi pericolosissimo, a disposizione dei governi nel loro perenne negoziare con l’Europa, in questa caso Eurostat, sulla taratura del “termometro”, appunto la statistica, che rileva il loro tasso di adesione agli standard comunitari. In Italia, l’applicazione di alcuni metodi statistici a un tessuto sociale che in almeno metà Paese è impregnato di disobbedienza civile si riduce a una grottesca satira dei principi perseguiti. Per cui, ad esempio, il censimento agricolo basato sulle dichiarazioni spontanee degli interpellati circa la consistenza degli averi zootecnici e dei quantitativi della produzione agricola è la fiera mondiale delle bugie.



In particolare, tornando alle statistiche sul lavoro, l’introduzione della categoria dei “Neet”, cioè di coloro che non studiano, non lavorano e non cercano lavoro, che viene sottratta dalla platea dei disoccupati, ne abbassa l’incidenza ma non cancella il problema. È chiaro che individuare come categoria misurabile quella di chi “non cerca lavoro” non è più una rilevazione statistica sensata, ma è come se fosse un sondaggio d’opinioni. Un’indagine emotiva, non sociodemografica. In realtà, i Neet non sono facoltosi “rentier”, cioè non vivono di rendita, ma semplicemente di scampoli di reddito che affluiscono loro dalle famiglie o dalla strada, in un misto di sommerso, illecito, parassitismo e semplice welfare familiare.

Ebbene: da oggi, in sostanza, Di Maio cerca di indurre una riscrittura in senso “trasparente” delle regole applicate per descrivere il mercato del lavoro. Il suo decreto dignità rende un po’ più difficile reiterare i contratti a termine sperando così – e qui c’è l’ingenuità – di favorire maggiormente il ricorso a quelli a tempo indeterminato. Cioè, recita il comunicato di palazzo Chigi, “fatta salva la possibilità di libera stipulazione tra le parti del primo contratto a tempo determinato, di durata comunque non superiore a 12 mesi di lavoro in assenza di specifiche causali, l’eventuale rinnovo dello stesso sarà possibile esclusivamente a fronte di esigenze temporanee e limitate (da dettagliare, quindi: è la fine della formula “senza causale” sventolata da Renzi, quando la introdusse, come un’esplosione di liberalizzazione, ndr). In presenza di una di queste condizioni, già a partire dal primo contratto sarà possibile apporre un termine comunque non superiore a 24 mesi. Al fine di indirizzare i datori di lavoro verso l’utilizzo di forme contrattuali stabili, inoltre, si prevede l’aumento dello 0,5% del contributo addizionale – attualmente pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, a carico del datore di lavoro, per i rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato – in caso di rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione”.

Insomma, usare i contratti a termine si può, ma per un tempo meno lungo, con più dettagli e in caso di rinnovo con un lievissimo sovracosto. Niente di trascendentale né di rivoluzionario, ma un segnale, sì. Ai renziani, che strepitano di aver creato un milione di posti di lavoro, è lecito ricordare che il lavoro è, sì, sempre un valore, anche quand’è a termine; ma se è a tempo indeterminato – soprattutto in presenza della possibilità, non abolita, del licenziamento economico individuale – è “un valore più” rispetto a quello dell’altro tipo. E che anche sul piano statistico sarebbe indispensabile introdurre una distinzione tipologica nella rilevazione dei dati, per cui gli assunti a tempo indeterminato andrebbero distinti da quelli a termine e le assunzioni a tempo indeterminato andrebbero premiate, in qualche modo, sul piano dei costi. Chissà che non ci si arrivi.

Due annotazioni sul metodo: rincarare il costo del licenziamento individuale portando da 24 a 36 mesi l’indennizzo massimo da corrispondere non è illiberale, ma serve a ricordare, con un più forte deterrente economico, che la scelta di togliere il lavoro a un uomo va fatta con grande scrupolo. Quanto all’altro punto forte del decreto, cioè le sanzioni alle imprese che dopo aver intascato contributi pubblici trasferiscono all’estero impianti e risorse umane, è un sano principio ma crolla su un dettaglio: quello in cui il testo del decreto, che chiaramente per questo dovrà cambiare, pretende di applicare la regola a che a chi trasferisca la sede all’interno dell’Unione europea. Una regola che viola il principio della libertà di stabilimento e che non passerà mai a Bruxelles.