Oggi 30 luglio, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è in visita ufficiale alla Casa Bianca. Troverà un clima sereno e affettuoso, non solo perché l’America, soprattutto quella repubblicana, ha sempre avuto un po’ un debole per l’Italia, ma anche perché – come scrivemmo nel lontano 2013 – l’allora Presidente Barack Obama ha mostrato curiosità e simpatia per il M5S e non è da meno Donald Trump. Mediaticamente, Conte è stato non poco spiazzato dall’incontro, sempre alla Casa Bianca, tra il Presidente degli Stati Uniti e quello della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che ha appianato la guerriglia di dazi e contro-dazi. Il Presidente del Consiglio italiano avrebbe voluto essere o sembrare il mediatore (pare essere la vocazione del Bel Paese). Ma l’accordo è stato fatto.



Juncker – si ricorda – ha titolo a negoziare per conto di tutta l’Ue (seguendo l’indirizzo fornito dai 27 Stati membri) in base all’art. 207 del Trattato di Roma, anche se alcuni esperti ritengono, a ragione o a torto, che tale funzione della Commissione sia stata superata dal trattato dell’Organizzazione mondiale del commercio, di cui sono contraenti i singoli Stati. La prassi è comunque che sia la Commissione a trattare per l’intera Ue anche se, di solito, le ratifiche sono affidate ai Parlamenti nazionali.



Ora, al pari delle telenovelas che ci propina il cosiddetto servizio pubblico televisivo, ci si accorge che lo zio affidabile (e sempre pronto ad aiutare i litigiosi nipotini sull’altra sponda dell’Atlantico), non era diventato un bullo (come sembrava di essere da più di un anno), ma era solo un po’ burbero. Come il Don Bartolo de Il Barbiere di Siviglia.

L’accordo del 25 luglio (data fatidica) è di vasta portata: impegno Usa e Ue di abbattere quel che resta ancora di dazi su manufatti e semi-manufatti; una cooperazione più stretta in materia energetica (ossia maggiori acquisti Ue di idrocarburi americani e meno di quelli russi); apertura del mercato europeo a produzioni agricole americane. Questo ultimo punto è stato sottovalutato dalla stampa (soprattutto italiana), ma è fondamentale in quanto può diventare un vero e proprio grimaldello per rimettere ordine nella scellerata e autolesionistica politica agricola comune dell’Ue che a beneficio principalmente di Francia, Olanda e Belgio, e alcune categorie di produttori italiani, grava pesantemente su contribuenti e consumatori, nonché sui Paesi in via di sviluppo. L’apertura alla soia Usa può essere il cavallo di Troia per demolire un costoso e inefficiente vecchio castello dove imperversano i particolarismi. Auguriamoci che il Governo giallo-verde colga quest’opportunità.



Ma c’è un aspetto più importante. Nonostante le minacce, e anche gli insulti degli ultimi mesi, a Ginevra, a pochi passi dalla sede dell’Omc, un edificio magniloquente degli anni Venti del secolo scorso creato per ospitare l’Organizzazione internazionale del lavoro, nel parco Mon Repos sulla riva del Lago Lemano, all’elegante ristorante La Perle du Lac, sono spesso a colazione tre figure chiave del mondo del commercio internazionale, ma poco note al grande pubblico: lo US Trade Representative Robert Lighthizer e i capi delle Rappresentanze Permanenti presso l’Omc dell’Unione europea, Marc Vanheuler, e del Giappone, Junichi Ihara.

I ben informati sostengono che è in corso l’inizio di una vera e propria trattativa, guidata da Usa, Ue e Giappone con l’obiettivo di medio e lungo periodo di riformare l’Omc e con quello più immediato di mettere la Cina al posto proprio, ossia di obbligarla a seguire il codice di condotta del commercio internazionale. Il “triunvirato” è stato annunciato da un comunicato anodino del 31 maggio a cui pochi hanno dato peso. La Cina è stata ammessa all’Omc l’11 dicembre 2001 sulla base della promessa che avrebbe liberalizzato la propria economia; invece, è progressivamente diventata più statalista, fornisce ampi aiuti di Stato alle proprie imprese privatizzate, copia con disinvoltura i brevetti e le tecnologie altrui e ha “schermato” il proprio mercato high-tech da inclusioni straniere. Ciò spiega gli apparentemente magri risultati del recente vertice bilaterale Ue-Cina (rispetto, ad esempio, dell’esito del vertice analogo Ue-Giappone).

Morta sul nascere la “diplomazia dell’euro e del renminbi” di cui parlammo su questa testata il 16 luglio, si profila una “diplomazia del dollaro, dell’euro e dello yen”? Presto per parlarne, anche se ci sono segnali all’orizzonte.