“Siamo lieti di poter unire Wind e 3 Italia per costruire una rete 4G/Lte di altissimo livello. La nuova azienda, la sua squadra di manager e il suo sistema di governance sono pronti ad aprire una nuova era di servizi di telecomunicazioni in Italia. Nel 2017, non appena le due compagnie integreranno le proprie reti e condivideranno il loro know-how tecnologico, i clienti beneficeranno di una migliore qualità del servizio e di una rete dati ancora più performante. Attraverso questo accordo, la nuova azienda prevede di raggiungere, a tendere, sinergie in termini di costi e investimenti per un valore di 700 milioni di euro all’anno”.
Era il 7 novembre del 2016, esattamente diciannove mesi fa, un anno e mezzo, e Jean-Yves Charlier, Chief Executive Officer di VimpelCom, distillava questa nota per la stampa internazionale, ad attestare l’impegno strategico del suo gruppo a sostenere lo sviluppo della grande joint-venture nei telefoni. Ebbene: era una palla. Era una solenne supercazzola. Oggi lo si può dire, senza tema di smentita. Vimpelcom ha venduto il suo 50% ai partner cinesi di Ck Hutchison. Si è chiamata fuori, ha intascato una miliardata di plusvalenza e ha archiviato tutta la sua foga industriale di strateghi del telefono.
Quando la cronaca finanziaria si incarica di sbugiardare quel menzognificio che spesso è il mondo della cosiddetta alta finanza è necessario fare punto, tirare un bel respiro e ripeterci, tutti, che la bugia sta al business come il cemento sta all’edilizia. Non è un’eccezione, è la regola. Quando i russi di Vimpelcom firmarono l’accordo con cui conferivano Wind alla joint-venture con 3, non avevano “intenzioni serie”: questa è la verità. Non avevano in testa strategie, ma tattica. Volevano scaricarsi di una parte del peso finanziario di un’acquisizione a suo tempo mal fatta sulle spalle decisamente più solide dei cinesi che, d’altronde, avendo nella loro mentalità quella categoria culturale che è “il lungo termine”, erano disposti a guardare lontano, e aspettare seduti sulla sponda del fiume il giorno in cui sarebbe passato nella corrente il cadavere delle bugie del partner.
Chiarito questo, a sostegno della sacrosanta diffidenza con cui prendere – sempre! – le dichiarazioni ufficiali che vengono rese ai mercati, impunemente, diciamoci però che quella di ieri è stata una giornata buona per la telefonia mondiale. Esce dalla scena telefonica italiana un attore farlocco, tutto logica finanziaria e zero programmazione industriale, e torna in campo a pieno titolo un soggetto industriale che ha invece creduto a tal punto nel mercato italiano da avervi investito, tra il 2001 e lo scorso anno, 15 miliardi di euro in infrastrutture industriali fisse, negozi, call-center, personale qualificato e riqualificato, calmierando i prezzi con offerte low-cost fino a costringere perfino i concorrenti forti (ed esosi: Tim e Vodafone) ad abbassare anche i loro. E dunque torna in campo, vincente, la logica industriale ed esce da questa scena, almeno per ora, la logica speculativa della finanza fine a se stessa.
Cosa succederà adesso, meglio lasciarlo ai fatti che cercare di capirlo dalle dichiarazioni del day-after, che rispetteranno un cerimoniale teso a inventare intervenuti mutamenti di scenario per giustificare al cosiddetto colpo di scena. Il Sussidiario non aveva mai creduto fino in fondo alle logiche che venivano sbandierate dai “promessi sposi” nella lunga vigilia dell’accordo, tese – tutte – a far sì che l’Antitrust europeo approvasse l’accordo, com’è poi avvenuto, ma con l’imposizione (sgradita a tutti tranne che ai consumatori) dell’avvento di un nuovo “quarto gestore”, Iliad, che assolvesse lui al ruolo di chi mantiene viva un’offerta low-cost. Ma neanche gli scettici come noi avrebbero immaginato che il bluff si scoprisse così in fretta. Meglio. Adesso, quelli di Wind-3 possono rimettersi a lavorare più serenamente, con un azionista unico che “pensa industriale”. E paga, oltre a passare all’incasso.
Peccato che sull’altare del matrimonio – e questo è convenuto anche ai cinesi! – ci abbiano rimesso il posto un migliaio di persone, in gran pare profumatamente pagate per andarsene, ma oggi in molti casi nella scabrosa situazione di chi non ha ancora alcuna certezza di trovare un nuovo posto di lavoro. È il capitalismo, bellezza. E non possiamo farci niente, proprio niente. Salvo una cosa: non fidarci mai. E questo non significa essere comunisti, ci mancherebbe. Significa leggere i giornali e avere un po’ di memoria. Solo un po’.