Il decreto dignità divide governo e mondo delle imprese. Da una parte, il vicepremier e ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, parla di un provvedimento che dà un “colpo mortale al precariato”, restituendo “diritti” e combattendo “precarietà, burocrazia e delocalizzazione”. Dall’altra, il mondo delle imprese, Confindustria (ma non solo) in testa, che dice no alle nuove misure, definendole “un segnale molto negativo: calerà il lavoro non la precarietà”. Sotto accusa rigidità, aumento dei costi, regole più incerte, norme punitive. “Il ministro Di Maio – commenta Alfredo Mariotti, direttore generale di Ucimu-Sistemi per produrre – ha dichiarato che il decreto dignità rappresenta la ‘Waterloo della precarietà’. Invece non lo è per niente, anzi”.
Che cosa non la convince?
Questo decreto non spingerà certo le aziende a trasformare i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato.
Perché ne è così sicuro?
Non si è capito che le imprese hanno tre opzioni: assumo a tempo indeterminato, assumo a tempo determinato, non assumo nessuno. Oggi per un imprenditore valutare le prospettive di lungo periodo non è affatto semplice, è dal 2007 che gli andamenti sui mercati sono all’insegna dello stop & go, il che rende assai difficile poter dire fino a quando si ha bisogno di un lavoratore. E comunque non si deve dimenticare il fatto che tenere una persona con contratti a termine per uno o due anni consente di farle maturare un curriculum, spendibile anche in un altro posto di lavoro, perché nel frattempo è stata valutata e formata.
Ci sono alternative migliori, magari da adottare in sede di discussione parlamentare?
Più che penalizzare chi utilizza i contratti a termine, è meglio incentivare fiscalmente il tempo indeterminato.
In che modo?
Tagliando il cuneo fiscale o introducendo sistemi premianti per le imprese. Senza arrivare a soluzioni alla tedesca, non mancano certo le soluzioni praticabili. Basti pensare a Industria 4.0.
Perché?
Grazie a super e iperammortamenti con la quarta rivoluzione industriale, che è appena partita, per le imprese sono stati anni relativamente buoni, il che ha consentito anche di far entrare in azienda persone nuove, che grazie ai contratti a tempo determinato hanno avuto la possibilità di farsi conoscere. A nessun imprenditore, una volta formate, piace perdere le risorse giuste. Nei campi dell’innovazione e dell’automazione manifatturiera è già difficile reperirle, figurarsi se un’impresa le butta via. L’importante è far sì che ci sia la possibilità di valutarle al meglio. E poi bisogna imparare a fare i conti con la globalizzazione, che obbliga le imprese a non avere troppi vincoli.
Perché non vi convincono anche le norme contro le delocalizzazioni?
A parte il fatto che la norma è prevista anche per chi delocalizza in Europa, e non vorrei che questo portasse a una sorta di tante “sentenze Bosman” delle imprese, perché si viola il principio della libertà di movimento, trovo poco comprensibile la penalizzazione, che costringe a restituire da 2 a 4 volte il beneficio ricevuto. Questa misura rischia di bloccare gli investimenti delle società estere. Per attrarle in Italia vengono offerti dei benefici. Queste imprese, una volta impiantate qui, devono poi vedere come va il mercato, che può anche prendere una piega negativa, e se decidono di trasferirsi, devono poi pagare il doppio o il quadruplo? A quel punto, sceglieranno già in partenza un altro Paese in cui insediarsi. Ma non c’è solo questo. Inviterei a prestare attenzione alla differenza tra delocalizzazione e internazionalizzazione.
Cosa c’entra l’internazionalizzazione?
L’internazionalizzazione, cioè la decisione di un’impresa che senza toccare l’occupazione in Italia decide di aprire un reparto di produzione in un altro Paese perché più vantaggioso, deve essere incentivata, non penalizzata. Il testo del decreto su questo punto non è così preciso. E potrebbe aprirsi un problema enorme.
Di Maio ha dichiarato che con il decreto dignità è stato “licenziato il Jobs act”…
Come? Dove? Semplicemente perché si portano da 24 a 36 mesi le indennità per i licenziamenti? Io non vedo un grande superamento del Jobs act, che tra l’altro aveva molti aspetti da non buttare. Tutto è migliorabile, certo, anche il Jobs act era da adeguare, ma in una direzione più moderna del mercato del lavoro e della cultura d’impresa, non facendo dei passi all’indietro. Il decreto dignità, invece, introduce un vincolo in più all’assunzione.
Nel mercato del lavoro attuale, e sempre più in quello futuro, conteranno formazione, rivoluzione digitale, automazione…
E nel decreto non c’è niente di tutto questo.
Un recente studio dell’Ocse segnala che in Italia c’è troppa disoccupazione e che i salari reali stanno scendendo, a causa della scarsa produttività e “di una percentuale significativa di lavoratori temporanei a basso reddito”. Il problema, dunque, esiste. Come si possono sanare queste due ferite?
Il discorso non è semplice, ma secondo me bisogna investire nella formazione continua. Ci vuole un grande sforzo in questo campo. Con la digitalizzazione, con Industria 4.0 nasceranno nuovi mestieri. Pensi solo ai robot collaborativi, alla lettura dei big data, al controllo dei sensori, all’assistenza a distanza per evitare il fermo macchine, alle interconnessioni con prodotti, fornitori e clienti: tutto questo avrà bisogno di un’anima. E quest’anima la possono dare solo le persone, che però vanno istruite e riqualificate. Così si incrementa la produttività e si alzano i salari, perché un lavoratore dovrà occuparsi di mansioni e ruoli più qualificati.
Giancarlo Giorgetti, in una intervista al Corriere, ha dichiarato che il decreto dignità “non è di sinistra, non è di destra, ma è populista”. E secondo lei?
Se per populista intendono una misura di carattere sociale, poi lo si vedrà nei fatti. A me però sembra che l’impostazione sociale di questo decreto sia alquanto smussata.
(Marco Biscella)