Chi fa la politica economica del governo giallo-verde? È il saggio Tria che rassicura i mercati, ma che i critici già chiamano Giovanni senzaterra e senza potere? È Luigi Di Maio che sta cercando di trasformare il suo decreto sul mercato del lavoro in un provvedimento omnibus con sgravi fiscali per le partite Iva e un taglio del cuneo fiscale? È Paolo Savona che ha ottenuto deleghe pesanti che non riguardano solo i rapporti con l’Unione europea, perché dirà la sua anche sugli investimenti pubblici, sulla politica fiscale, in sostanza sulla polpa della politica di bilancio? Oppure è l’uomo forte Matteo Salvini il quale non ha affatto rinunciato a far passare con la prossima finanziaria il taglio alle imposte chiamato flat tax?



Se lo chiedono tutti coloro i quali hanno in mano il risparmio degli italiani, se lo chiedono le agenzie di rating che, come Standard & Poor’s, tagliano le stime di crescita dall’1,5% all’1,3% e soprattutto mettono il dito sulla piaga: l’incertezza alimentata dai comportamenti del governo e dalla confusione su chi è davvero in plancia di comando.



È una situazione pericolosissima che abbiamo già visto nel 2011. Certo, oggi non c’è all’orizzonte una crisi come quella greca che cambiò nel giro di pochi mesi tutte le carte sul tavolo da gioco europeo e internazionale, ma nel prossimo autunno è in vista un altro grande cambiamento destinato a incidere sui fondamentali, in particolare quelli italiani: la fine del Quantitative easing, il che vuol dire che la Banca centrale europea non comprerà più i titoli di stato così come ha fatto dal marzo 2015, contribuendo in modo determinante a raffreddare la febbre terzana che agita i mercati finanziari.



Quel che oggi ricorda il 2011 è soprattutto l’incognita sulla guida dell’economia. Allora il ministro del Tesoro Giulio Tremonti, di fronte all’ondata di instabilità provocata dal crac greco, decise di tenere la barra dritta e abbassare la testa per schivare i colpi, di “stare schiscio” come si dice a Milano. Un atteggiamento che non piacque a Silvio Berlusconi, il quale pensava che bisognasse aprire i rubinetti della spesa pubblica per ammortizzare il colpo che proveniva dall’esterno. Quando il centrodestra perse le elezioni al comune di Milano nel maggio di quell’anno, Berlusconi si convinse che occorresse uno stimolo forte, “una frustata”, così disse, per rilanciare l’economia. Tutto questo rese ancor più difficile la situazione dell’Italia dove settimana dopo settimana aumentava lo spread con la Germania.

Ai primi di agosto arrivò la lettera della Banca centrale europea firmata dal presidente Jean-Claude Trichet e da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia sul punto di passare a Francoforte. La Bce non chiedeva una stretta come quella che venne realizzata in autunno da Mario Monti, ma una serie di riforme impegnative, tra le quali quella del mercato del lavoro e quella delle pensioni. La Lega Nord si mise di punta: le pensioni non si toccano, proclamò Umberto Bossi, e quando si trattò di mettere a punto la legge finanziaria, la tensione interna arrivò al culmine. Ai primi di settembre, in coincidenza con l’annuale seminario Ambrosetti, maturò la exit strategy: l’uscita di scena di Berlusconi con un governo tecnico guidato o da Tremonti o da Mario Monti che, nel frattempo, era stato contattato da Giorgio Napolitano.

Trascorsero due mesi di passione, l’Italia arrivò sull’orlo del crac, ci fu una settimana, tra ottobre e novembre, in cui cominciò a mancare la moneta liquida per rifornire i bancomat. Finché Berlusconi si dimise l’8 novembre, e cominciò l’avventura Monti; ma i mercati si calmarono solo nell’estate del 2012 quando Draghi disse che l’euro era irreversibile e avrebbe fatto tutto quello che era necessario per sostenerlo.

È sempre utile ricordare a che cosa siamo scampati sei anni fa, non perché la storia si ripete (né come tragedia, né come farsa), ma affinché non si commettano gli errori del passato. L’impostazione che Tria ha dato alla sua politica di bilancio, così com’è apparsa dal suo ultimo intervento in Parlamento, sembra mettere ordine nel caos creativo giallo-verde seguendo una impostazione solida. In sostanza, vuole tenere i conti in ordine bloccando la spesa corrente in termini nominali e recuperando spazio per gli investimenti pubblici. Non sarà uno spazio ampio, ma può servire a dare un segnale che la spesa pubblica va “riqualificata”.

Nel frattempo, intende negoziare con l’Unione europea ulteriore flessibilità che consenta di portare il disavanzo dallo 0,9% previsto dal Def all’1,4% del prodotto lordo, mezzo punto percentuale che ammonta a circa otto miliardi di euro. Non basterà a trovare risorse per scongiurare l’aumento dell’Iva (12,5 miliardi), ridurre le imposte sui redditi (20 miliardi secondo la originaria impostazione della flat tax) e concedere il reddito di cittadinanza, che non si sa ancora bene quanto costerà finché Di Maio non avrà messo nero su bianco di che si tratta. Se, poi, a ogni dichiarazione sulla stampa o sui social media il ministro del Lavoro e dello Sviluppo mette in cantiere sempre maggiori spese, diventa ancor più difficile fare i conti.

Per recuperare margini di copertura delle spese aggiuntive o dei mancati incassi, Tria pensa di intervenire contro le mille scappatoie fiscali, di fare ancora pulizia nella spesa corrente, mentre si attende di capire che cosa sarà effettivamente la “pace fiscale”, cioè il nuovo condono, per fornire una stima più o meno attendibile del gettito disponibile. Tutto questo avverrà nel prossimo mese, appena sarà completata la squadra al Tesoro (manca ancora il direttore generale) e alla Ragioneria centrale (non si sa se Daniele Franco, l’attuale ragioniere generale che proviene dalla Banca d’Italia, verrà o no confermato). Comunque, di qui a settembre, quando Tria presenterà il quadro di politica economica, avremo tempo per nuove esternazioni, invasioni di campo, sovrapposizioni, aggiunte, promesse e proclami tutti a scapito della spesa pubblica. Sperando che il raffreddamento della congiuntura, ormai previsto da tutti, non diventi una gelata d’autunno.