C’è stato un tempo, alla fine del secolo scorso, in cui il dibattito sulle strategie di politica economica ha imboccato quella che per qualche tempo è stata chiamata “terza via”. Né uno Stato forte, né un mercato libero e senza regole, ma qualcosa che unisse le potenzialità di sviluppo proprie del capitalismo e la lotta alle disuguaglianze che dovrebbe essere un compito primario dello Stato. Una visione in fondo socialdemocratica, sostenuta in particolare da Tony Blair in Gran Bretagna e dal suo ideologo Anthony Giddens, che tuttavia non scopriva nulla di nuovo perché i principi del giusto equilibrio tra Stato e mercato erano stati uno dei punti di forza della ricostruzione in Germania secondo i valori espressi da Wilhelm Roepke con la definizione di ordoliberismo chiamata anche “economia sociale di mercato”.
Dopo il crollo del muro di Berlino e il fallimento dichiarato del primato assoluto dello Stato comunista sono praticamente tutti d’accordo nel vedere il rapporto tra Stato e mercato non come una sfida, ma come un cammino che deve trovare puntualmente un proprio equilibrio. La massima secondo cui “il mercato deve spingersi fin dove è possibile, lo Stato intervenire quando necessario” è stata in fondo lanciata nel programma socialista di Bad Godesberg nel 1959 e ripresa poi decenni dopo dal Presidente francese Nicolas Sarkozy, oltre che da Giulio Tremonti da ministro dell’Economia.
In questa visione c’è tuttavia un grosso rischio: quello di considerare che i problemi dello scarso sviluppo da una parte e delle disuguaglianze dall’altra possano essere affrontati e risolti solo variando, come su un bilancino nel farmacista, le percentuali di Stato e di mercato da somministrare alla società. È in fondo la visione di un grande economista come Paul de Grauwe, docente alla London school of economics, nel suo ultimo libro I limiti del mercato, da che parte oscilla il pendolo dell’economia? (Il Mulino, 2018), un libro che pur presenta un’analisi accattivante e largamente condivisibile dei pregi e dei difetti di un’economia di mercato da una parte e dall’altra degli effetti dell’intervento dello Stato. Un’analisi che non si ferma alla teoria, ma che passa al setaccio della storia anche i risultati che le scelte hanno avuto nelle esperienze dei diversi paesi osservando in particolare come la spesa sociale abbia influito sui risultati economici.
Il problema di fondo tuttavia resta il fatto che la redistribuzione, e quindi la politica fiscale che alimenta la spesa sociale, resta un elemento complementare nei compiti di uno Stato moderno, compiti che dovrebbe concentrarsi nello scrivere le regole, e nel farle rispettare, più che intervenire sul terreno di gioco. E allo stesso modo appare limitativo il pensare che l’unico problema sia quello di equilibrare i due fattori, Stato e mercato appunto, senza introdurre elementi che non possono essere incasellati né nell’una, né nell’altra parte.
Si può pensare al ruolo del terzo settore, del volontariato, dell’economia cooperativa, delle logiche di sussidiarietà, ma si può e si deve pensare soprattutto allo spirito che muove le azioni delle persone, spirito che non è solo quello del profitto, dell’interesse o della convenienza, ma è anche quello del dono, della gratuità, della comunione.
La terza via da riscoprire non è allora solo quella, peraltro necessaria, di uno Stato più efficiente e di un mercato ben regolato, ma è quella di creare insieme una cultura della condivisione e uno spazio di libertà perché si esprima la responsabilità di ciascuno. Sarebbe il caso di riparlarne in questa direzione, ma la politica attuale, soprattutto quella italiana, sembra più preoccupata degli effetti mediati e delle sovrastrutture per preoccuparsi della cultura del bene comune.