La questione dazi è stata uno dei temi principali dell’incontro tra il Primo ministro Conte e il Presidente americano Trump, il quale si è lamentato ancora una volta del deficit commerciale americano, dello squilibrio nel rapporto con l’Europa e ha parlato esplicitamente del deficit commerciale con l’Italia su cui il nostro Paese e gli Stati Uniti dovranno trovare una soluzione. Per l’Italia la guerra commerciale non è una grande notizia e sul banco degli “imputati europei” ci presentiamo con il secondo maggior surplus commerciale dopo quello tedesco. Forse si può sperare in un trattamento migliore, rispetto a quello tedesco, per l’allineamento che l’Italia ha mantenuto nei confronti della politica estera americana, ma non c’è da scommetterci troppo; il Presidente americano ha ribadito in ogni modo di non essere più disposto a proseguire con lo schema degli ultimi decenni e di volerlo cambiare profondamente dicendolo anche agli alleati più fedeli.
Su questo tema ci pare ci sia un equivoco di fondo. La nuova politica americana non è un incidente di percorso causato da un presidente “pazzo” o “populista” che rientrerà se ci fosse un cambiamento al vertice. Settimana scorsa la senatrice democratica Elizabeth Warren, sicuramente tra i leader del suo partito e forse domani candidata alla presidenza, ha rilasciato un’intervista alla Cnbc interessante. Richiesta di un commento sulle politiche commerciali di Trump, la senatrice ha risposto di essere d’accordo con il Presidente sui dazi verso la Cina e sull’idea di uscire dall’accordo commerciale “Ttp” (che include il Messico tra gli altri). La senatrice ha detto di essere “da molto tempo critica della politica commerciale americana”, dato che “è stata negoziata da un manipolo di manager delle grandi corporation per aiutare loro e lasciare indietro tutti gli altri”; per la senatrice, le “tariffe sono un mezzo anche se non l’unico”. Non è mancata una frase davvero “trumpiana”: “La politica commerciale… per decenni è stata favolosa per le multinazionali per aumentarne i profitti, ma un vero killer per i lavoratori e le piccole imprese americane”. Una frase che andrebbe bene per la conclusione di un comizio di Trump.
Il punto di disaccordo è sul caos generato da Trump e sull’assenza di un piano. Forse potremmo dire che Elizabeth Warren vorrebbe un approccio meno “ruvido” e meno urlato o che forse opterebbe per un rientro più diluito nel tempo; rimane la netta impressione che a voler ridurre gli squilibri commerciali degli Stati Uniti non è solo “quel pazzo di Trump” e che ci sia un ampio consenso sul fatto che questi squilibri non solo non siano più sostenibili, ma debbano rientrare. L’elezione stessa di Trump è in parte figlia di questi squilibri e per un’altra parte delle politiche monetarie della Fed sotto la presidenza Obama. Bisognerebbe poi chiedersi se Trump sia pazzo o faccia il pazzo e se il suo approccio non sia da mettere nel quadro di un abile negoziatore che all’inizio spara altissimo.
Dal nostro punto di vista, italiano ed europeo, ci sono due questioni. Una contingente perché imporre una riduzione del deficit commerciale a questi ritmi rischia di devastare intere economie che non hanno il tempo di adeguarsi alla nuova realtà. Per adattarsi a un nuovo scenario cambiando un paradigma che dura da qualche decennio ci vuole tempo anche con tutta la buona volontà. La seconda questione è che l’Italia, la Germania e l’Europa in generale non possono pensare di continuare a fare quello che facevano prima. Non ci si può illudere che, cambiato il Presidente, si possa tornare indietro.
Questo per l’Europa a guida “tedesca” o che oggi propone a tutti il suo schema significa forse dover ripensare, almeno in parte, il proprio modello spendendo più soldi per gli investimenti e aumentando il peso della domanda interna. Significa anche che la via della svalutazione valutaria è meno percorribile dentro o fuori dall’euro e che, anche a livello italiano, occorre scegliere attentamente quali esportazioni privilegiare e su quali scommettere in un mondo che diventa più complicato e dove la qualità o la tecnologia contano di più. Per l’Italia diventa vitale, dentro o fuori dall’euro, ma in realtà ancora di più se fuori, l’efficientamento della macchina pubblica.