I mercati sono come le medaglie, hanno due facce. Una visibile, mediatica. E una nascosta sotto il pelo dell’acqua, come gli iceberg più pericolosi. La prima è caratterizzata, in quest’epoca di comunicazione social e schiava dei trend topic e degli hashtag, dagli indici di Borsa e dallo spread, ad esempio. La Borsa sale, va tutto bene. La Borsa scende: la Borsa non scende, mai. Salvo casi episodici e sempre più sporadici. È questa la grande novità introdotta del nuovo regime finanziaria post-2008, quello che vede le Banche centrali al timone dei mercati: non esistono più le brutte notizie, tutto sembra sistemato.
Certo, lo spread ogni tanto assesta qualche scossone, fa paura per qualche giorno salendo sul primo gradino del podio televisivo, ma tutta roba che passa con un governo fatto in fretta e furia o con un Mario Draghi che compra e rassicura. Sott’acqua, però, le cose vanno diversamente. L’importante è che non si sappia. D’altronde, l’intera narrativa della “ripresa globale sostenibile e sincronizzata” è stata ben congegnata, almeno nell’ultimo periodo. E occorre fare in molti casi mea culpa, supportata com’è stata con entusiasmo acritico e degno di miglior causa dalla gran parte dei media.
Prendete il dato del Pil statunitense pubblicato venerdì scorso, quel +4,1% che ha fatto gridare tutti al miracolo e procurato certamente una lesione al tunnel carpale dal twittatore seriale della Casa Bianca: un dato del genere non si vedeva da quattro anni. Quasi cinese, se lo paragoniamo agli anemici livelli di crescita dell’eurozona, quel 2,3% atteso per il 2018 che ha meritato l’inglorioso paragone di prima pagina de IlSole24Ore di sabato scorso. Eppure, c’è un problema. Anzi, due. Soprattutto, come accaduto l’altro giorno a Washington, il nostro primo ministro decide sua sponte di diventare non solo “il miglior amico” degli Usa in Europa, ma anche il grimaldello di Washington per sfasciare dall’interno la stessa e. E non per amore dei popoli, nel nome del sovranismo o in ossequio alla lotta contro le élites, bensì per mero interesse commerciale ed energetico, visto che l’Ue è il primo mercato al mondo e che la “proposta indecente” di Trump sulla Libia rischia di nascondere una clamorosa fregatura per il nostro Paese, tale da far chiedere ai meno idealisti a quale gioco stia giocando davvero Giuseppe Conte, in base a quale agenda e procura di chi.
E che quanto deciso a Washington nel vertice dell’altro giorno, in quattro e quattr’otto, rischi di avere ripercussioni strutturali per il nostro Paese non lo dice il sottoscritto, un signor nessuno, ma nel suo articolo di ieri uno dei pochi giornalisti italiani che non leggere equivale a compiere peccato mortale, Alberto Negri. Ecco le sue parole: «Visto che gli Usa vogliono vendere il loro gas liquefatto in Europa non si capisce bene che se ne fanno di quello della Libia, dove tra l’altro l’Eni fornisce l’80% dell’energia elettrica del Paese, se non per mettere una “fiche” geopolitica sul tavolo nordafricano. Tutto questo per ottenere l’appoggio americano alla conferenza in Italia sulla Libia? In poche parole, l’aiuto Usa andrebbe a pesare sulla nostra bolletta del gas. L’impressione, dalla cabina di regia, è che gli Usa tentino di darci un’altra fregatura, anche questa con il bollino blu».
Ma torniamo ai due problemi. Primo, il nucleo forte di quel dato arriva da un aumento una tantum dell’export Usa, +80% su base annua, non frazioni. Di fatto, l’anticipazione dei timori legati alle politiche protezionistiche legati a dazi e tariffe. Bastino due dati. Primo, a fare la parte del leone nelle esportazioni sono stati cibo e bevande, con un balzo tale da permettere all’export di passare dal 5,3% al 9,3% del Pil: insomma, solo sottraendo quella voce una tantum che la retorica trumpiana (e anche di certa stampa sovranista e non) vorrebbe invece miracolosamente strutturale, il 4,1% di venerdì sarebbe già sceso al 3,6%, stando a calcoli di Paul Ashworth, capo economista per gli Usa a Capital Economics.
Secondo, a trainare quel rialzo nel comparto alimentare è stata la soia, principale vittima degli annunciati contro-dazi cinesi e del conseguente spostamento degli acquisti di Pechino verso il Messico, il cui export è cresciuto del 26% su base annua: e, casualmente, commodity chiave dell’accordo raggiunto fra Trump e Juncker nel loro incontro della scorsa settimana, insieme al costosissimo (non fosse altro per il trasporto via mare) gas naturale liquefatto (Lng), diretto concorrente di quello russo che dovrebbe arrivare in Germania via Nord Stream 2 a prezzo molto più conveniente (ma molto alto a livello politico). Insomma, si sta capitalizzando dal futuro e dalla paura, il che significa che molto facilmente si pagherà dazio a questo anticipo nella seconda metà dell’anno. Giova ricordare in tal senso che nel quarto trimestre del 2011, l’economia Usa crebbe del 4,6%, salvo poi vedere il dato del Pil ridimensionarsi a un più normale +1,6% di media per i cinque trimestri successivi.
E poi c’è il secondo problema, plasticamente rappresentato da questo grafico: ovvero, il fatto che per quest’anno l’economia Usa, al netto dei rialzi dei tassi della Fed, è ancora sotto pesante doping da politiche statali e federali di stimolo. Le quali, però già l’anno prossimo andranno in netta contrazione, in contemporanea con un Budget tutto deficit e la contemporanea e conseguente necessità della Fed di emettere più debito per finanziarlo e dal 2020 cominceranno a presentare il conto.
Esattamente come l’anticipo sul Pil garantito dai timori per una guerra commerciale. Questi grafici, d’altronde, parlano chiaro: è davvero un’economia che scoppia di salute quella che, al netto di quegli stimoli e delle condizioni di finanziamento da credito al consumo che hanno riportato in auge e in grande stile la clientela subprime e la sua cartolarizzazione di massa, ha paura a cambiare l’automobile e ad accendere un mutuo per comprare casa, stante i tassi sì in rialzo, ma con quelli reali ancora ben al di sotto della normalità? Inoltre, la Cina sta picchiando duro anche altrove, visto che è divenuta venditrice netta di proprietà immobiliari ad uso commerciale negli Usa, una dinamica che, se protratta ed esacerbata, potrebbe portare all’accelerazione dello scoppio della bolla già presente in molte metropoli statunitensi, il cui settore real estate è già sotto pressione per il calo delle richieste di mutui.
E vi assicuro che sotto il pelo dell’acqua c’è dell’altro in America. Ci sono gli iceberg davvero grossi. Quelli stile Titanic, per capirci. E ce lo mostrano questi due grafici, ovvero il cadeau a sorpresa con cui Vladimir Putin si è presentato all’incontro di Helsinki con Donald Trump: una bella ricevuta di avvenuta vendita, nel mese di maggio, di 40 miliardi di dollari di controvalore di titoli di Stato Usa (Treasuries), scesi da 48,7 a 9 miliardi di dollari. Un bel -82%, dopo che in aprile il totale di detenzione era già sceso dai 96 miliardi di marzo a 48,7 miliardi, il dato minore dal 2008 e un bell’ordine di vendita di 47,4 miliardi anche allora.
E il secondo grafico ci mostra come, contestualmente, quella mossa sia stata il driver dell’impennata del rendimento della carta Usa a dieci anni, passata dal 2,7% di inizio aprile al 3,11% di fine maggio, il massimo da sette anni. Diversificazione delle riserve? Forse, almeno così si è “discolpato” Vladimir Putin venerdì scorso. O magari, segnale politico. E se questo fosse il caso, potrebbe non essere stato deciso interamente da Mosca, ma magari “suggerito” da Pechino, in vista della piega che avrebbe preso proprio la guerra commerciale.
Insomma, un messaggio per mostrare l’effetto che farebbe se, un giorno magari non troppo lontano, la Cina decidesse che è giunta l’ora di usare l’opzione nucleare sul debito, scaricando sul mercato gran parte di quello Usa che ancora detiene. E parliamo di 1,3 trilioni di dollari, non dell’argent de poche del Cremlino.
(1- continua)