Ben pochi osservatori hanno dedicato nei giorni scorsi grande attenzione alla crisi della lira turca. La protervia con cui il sultano di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, ha snobbato i ripetuti richiami della finanza internazionale relegando la banca centrale a un ruolo gregario rispetto al suo potere assoluto, non aveva sorpreso gli osservatori e i mercati, comunque convinti che il Presidente fosse in grado di governare la situazione, magari attraverso mosse autoritarie. Ma la situazione, quasi a sorpresa, è esplosa per via della reazione Usa.



Donald Trump non ha mobilitato, come si faceva un tempo, i marines o i razzi contro Erdogan, bensì i mezzi più efficaci e potenti: i capitali che si muovono sotto l’occhio vigile della Fed (decisiva per piegare la Corea di Kim e premere su Teheran), potenziati dall’arma dei dazi. È bastato l’annuncio delle tariffe a danno dell’alluminio e dell’acciaio turco (temibile concorrente per la nostra siderurgia) per accelerare il tracollo della lira, moneta estremamente fragile dopo anni di crescita scriteriata basata sull’indebitamento estero. L’aumento dell’esposizione, combinato con il forte disavanzo delle partite correnti, l’aumento degli oneri finanziari e delle sofferenze bancarie, è stata la polveriera ideale per far esplodere la santabarbara del sultano. Con buona pace di Allah, assai inopportunamente invocato per sollevare le masse degli elettori contro il nemico.



La moneta di Ankara ha così lasciato sul terreno il 20% in una sola giornata, che va a sommarsi al calo del 30% abbondante da inizio anno. I prossimi capitoli ci diranno se siamo di fronte a una crisi regionale, seppur gravissima, oppure se l’umiliazione di Erdogan cambierà gli equilibri del puzzle mediorientale. Di sicuro, esce a brandelli un altro pezzo della strategia europea. Dopo un lungo e inconcludente negoziato per ammettere Istanbul nella Comunità di Bruxelles, la Ue si è piegata a versare un robusto obolo a Erdogan per fermare l’avanzata dei “barbari”, ovvero dei siriani in fuga dalla guerra.



È ancora da valutare, poi, l’efficacia a lungo termine della strategia “daziaria” di Trump, già in atto contro la Cina. Di sicuro, con buona pace dei sovranisti, le tensioni valutarie si sono trasmesse sui mercati alla velocità del suono, facendo tremare lo spread e i titoli nostrani. Non sarà così necessario attendere il verdetto delle agenzie di rating (in calendario tra fine mese e il 7 settembre, data del rating di Moody’s) per avere un’indicazione sull’inquietudine degli operatori di fronte al balletto della manovra italiana. Ma la vera lezione è un’altra: si può ignorare per lungo tempo, come ha fatto Erdogan, il parere dei mercati (ovvero dei creditori), ma prima o poi il conto, salato, si paga.