Quello che ci vuole è un nuovo paradigma. Uno schema generale di pensiero dentro il quale collocare azioni coerenti e comprensibili anche quando non condivise. Una cornice larga che possa contenere le tessere di un disegno che si andrà componendo nel tempo e il cui risultato atteso è conosciuto. Solo così sarà possibile eliminare quell’incertezza, che inevitabilmente sfocia in confusione, che accompagna l’attività di governo tutti i giorni, in più momenti al giorno, dichiarazione di ministro dopo dichiarazione di ministro, alla ricerca costante di un compromesso che tenga l’esecutivo in equilibrio.
Nata quasi per caso e contro natura – basta riascoltare le dichiarazioni prima del voto per apprezzare l’incompatibilità dei giocatori in campo -, l’attuale formazione giallo-verde è tenuta in vita dal collante di un contratto (non certo un’alleanza) che per funzionare va calibrato momento per momento. I capitani delle due squadre costrette a militare dalla stessa parte hanno ben chiaro che la posta in gioco è molto alta e assai difficilmente potranno tornare a cimentarsi nel massimo campionato, quello del governo nazionale, se dovessero deludere i loro tifosi fallendo gli obiettivi che si sono dati.
Lo spazio per fare gol – tanto per restare nella metafora calcistica – è molto stretto. Data l’attuale debolezza degli avversari viene facile difendere la propria porta e con essa i consensi. Con le promesse elettorali si può sviluppare un bel gioco a centrocampo. Ma segnare è tutt’altra cosa… Per segnare occorre prima di tutto stabilire dove dover tirare. Dove collocare la rete da violare tirando a turno, un po’ Salvini e un po’ Di Maio, per raggiungere appaiati la vetta dei capo cannonieri. E bisogna che siano chiare a tutti, specialmente agli spettatori, le regole da rispettare. L’arbitro, da solo, non basta.
Cercar di vincere la competizione mirando un po’ a destra e un po’ a sinistra può anche far divertire all’inizio ed è certamente una novità, un cambiamento si direbbe oggi. Ma non è la condizione ideale per portare a casa il risultato. A meno che il risultato non sia quello, speriamo di no, di confondere.
Dopo che il dogma di Berlino dell’austerità felice (rigore fiscale e riforme strutturali in presenza di un’economia stagnante) ha mostrato la corda a causa di una crisi fuori del normale, si pone oggi il problema di quale modello culturale e operativo perseguire per assicurare all’Italia un futuro condiviso. Vogliamo che il Paese continui a crescere e, anzi, acceleri la sua corsa per garantire più benessere a tutti o desideriamo rallentare staccandoci dal convoglio europeo del quale, volenti o nolenti, facciamo parte? In assenza di chiarezza alcune azioni sembrano indirizzate al primo obiettivo, altre al secondo.
Come non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca non si può avere, tutto e subito, la flat tax, il reddito di cittadinanza, la riforma delle pensioni, gli 80 euro, il rispetto dei parametri europei, il controllo dello spread e delle frontiere, l’aumento delle assunzioni per decreto, il blocco dell’Iva. Per poterci fare un’idea della situazione e stabilire se ci va di essere felici crescendo con rigore o decrescendo con flessibilità o ristagnando incerti tra rigore e flessibilità con i giovani che se ne vanno all’estero abbiamo bisogno che qualcuno risponda a una semplice domanda: ma a che gioco giochiamo?