“Messicanizzazione”: è il garbato neologismo con cui Alberto Forchielli, un economista intelligente e provocatore, ha definito la situazione italiana commentando la strage da caporalato di alcuni giorni fa in Puglia. Facile spiegare: si parla di “messicanizzazione” quando un Paese è totalmente alla mercé dei poteri illegali. Non è solo e non è tanto un fatto di violenza fisica – per esempio, non è il Messico ma il Venezuela a detenere il triste primato dei morti ammazzati, peraltro appannaggio dell’Italia in Europa secondo le ultime statistiche Eurostat, 379 uccisioni contro le 377 della Germania, che ha 30 milioni di abitanti in più. La messicanizzazione si ha quando il potere vero è sfuggito dalle mani dello Stato e si è trasferito in quelle dell’anti-Stato. Un anti-Stato che a volte è così efficiente da prevenire gli omicidi…Già: ma chi è l’anti-Stato?



Lo spiega con molta chiarezza il resoconto che la Guardia di Finanza ha fatto ieri dei controlli effettuati nelle località di vacanza (una volta si sarebbe detto “villeggiatura”) sulla situazione del mercato immobiliare, quindi in particolare gli affitti estivi. Ebbene, forse senza rendersene conto, la Guardia di Finanza ha descritto la messicanizzazione in atto quando ha rivelato che quest’estate una casa-vacanze su due è stata affittata in nero. Puglia, Toscana e Lazio sono state le regioni “più irregolari”. Ma c’è da giurarci che è solo per la minore severità dei controlli effettuati altrove, suonerebbe strano che in Calabria o Campania o Veneto i cittadini fossero stati spontaneamente più ligi. 



E poi il colore: un ospizio in Sicilia trasformato in un albergo “all-black”, un pollaio adibito a bed and breakfast in Sardegna e via discorrendo. In sostanza cosa resta? C’è l’evidenza di una mancanza pressoché totale di controllo del territorio. Lo Stato non esiste: non è, come dovrebbe, una presenza virtuale nella mente di noi cittadini, rassicurante quando ci sentiamo in pericolo e minacciosa quando siamo tentati di deviare dalle regole. Semplicemente non c’è. E c’è invece l’anti-Stato. E siamo noi.

Siamo noi quando parcheggiamo in seconda fila, fregandocene di aver chiuso il passaggio a un carraio, quando passiamo col rosso o giriamo in auto senza cinture. Siamo noi quando affittiamo in nero la casetta e quando non denunciamo lo scippo subìto in stazione, dando biada al cavallo della propaganda mistificatoria di chi spaccia per buone le statistiche sul calo dei reati, contrarie all’evidenza della vita quotidiana di intere aree del Paese.



L’anti-Stato è una diffusa cultura popolare che l’ex ministro Giuliano Poletti, dal cui operato avrebbe dovuto dipendere l’efficienza dei Centri per l’impiego, incarnò quando disse che per trovare un posto di lavoro vale più giocare a calcetto che studiare. L’anti-Stato è la radicata convinzione che “fottere” le piccole leggi della civile convivenza non è una colpa.

Nel 2010 l’Agenzia del Territorio effettuò una ricognizione aerofotogrammetrica del Paese, rilevando l’esistenza di due milioni di “case fantasma”, che poi case non erano sempre, ma erano comunque immobili non censiti al catasto. Ne derivò un complicatissimo processo burocratico con cui catasto e comuni avrebbero dovuto saltare addosso ai proprietari di questi immobili, posto che fossero identificabili, per fargli pagare le tasse immobiliari dovute con gli arretrati, e poi sanare la situazione demolendo o mettendo a norma, a seconda dei casi. 

Se n’è più saputo niente? Macché! C’è mai stato qualcuno che abbia avuto l’orgoglio di annunciare: “Abbiamo sanato un milione di immobili fantasma”? Neanche per idea. Perché non è stato fatto. Due milioni di case diviso 8000 comuni fanno 250 immobili fantasma per comune: un paese fantasma nel cuore di ogni paese reale. Ma ci rendiamo conto? 

É anti-Stato che l’Acquedotto Pugliese – tuttora il più grande d’Europa – abbia registrato nel 2016 una percentuale complessiva della perdita del 48%, e nel 2015 era del 49%: un terzo del totale è dispersione fisiologica, un terzo è incuria, un terzo è furto. Ma da trent’anni è così, e nessuno ci ha mai messo mano. È anti-Stato anche quando cinque anni di “pagliacciata digitale”, pardon: di agenda digitale, non hanno nemmeno saputo porre mano alla bozza di un risanamento della stortura paranoidea dei 9000 centri di elaborazione dati differenti che allignano nella Pubblica amministrazione del Paese, creando una montagna di problemi di dialogo digitale tra enti ed enti. Altro che “fare sistema”. 

È anti-Stato vivere non necessariamente “contro” lo Stato, ma sicuramente “senza voler, né poter contare” sullo Stato. In questo senso, la scommessa della Lega di Salvini sulla flat-tax è amaramente a rischio. Ammesso e non concesso che rovistando sul fondo del barile della finanza pubblica il ministro Tria trovasse quei 15 miliardi di euro – almeno! – che servirebbero per lanciare una flat tax seria, il rischio del fallimento sarebbe altissimo: per colpa dell’anti-Stato.

Senza star a ripetere le ragioni per cui la flat tax è utile senza “se” e senza “ma” – perché riduce le tasse, e pazienza se le riduce di più ai ricchi, che almeno dopo quelli spendono di più – proviamo a spiegarci sul perché l’anti-Stato che alligna in Italia le farebbe quasi certamente fare flop. Cos’è la flat tax, sostanzialmente? È un accordo, un compromesso tra l’evasore fiscale e lo Stato. Quest’ultimo dice al cittadino evasore: io so che tu guadagni 100 euro e dovresti darmene 40 di tasse. Ma siccome tu evadi la metà abbondante dei tuoi redditi e pretendi di farmi credere che guadagni appena 30 euro, per potermi così pagare la miseria di 10 euro di tasse, ti propongo un accordo. Tu mi paghi 20 euro, anziché i 40 che mi dovresti, e si chiama flat tax. Io incasso i tuoi 20 euro e ti lascio in pace.

In Russia, in Bulgaria, Romania, Estonia, Georgia, Lituania e in altri 40 Stati ha funzionato, e molto bene. Perché allora in Italia corre il rischio assai concreto di non funzionare affatto? Per capirlo, ricordiamo cosa accomuna quei Paesi. Appartengono quasi tutti all’ex blocco sovietico. Sono insomma paesacci, giuridicamente: diciamolo. Paesacci in cui per settant’anni la polizia andava giù pesante. Dove la rabbia dello Stato fa paura. Dove il Tar non spadroneggia: fa ridere, di fronte al potere esecutivo e al pugno di ferro di quei… regimi, perché tali sono. 

Deve piacerci questa roba qui? Neanche per sogno. Siamo abituati bene, noi: ai mille cavilli, ai mille ricorsi. Non siamo davvero protetti perché poi la magistratura inquirente ha un potere individuale pazzesco di cui abusa sistematicamente e a spiovere, ma l’esecutivo è debole, anzi debosciato. Dove vola la flat tax, invece, quel compromesso tra evasori e Stato funziona perché i primi sanno che gli conviene accettare. Sanno che se rifiutano di pagare anche quel minimo, la polizia fiscale li lascia sul lastrico. Li massacra economicamente. Fa con loro, deliberatamente, quel che in Italia capita regolarmente ma senza alcun senso di interesse collettivo quando a un Pm inqualificabile come nel caso Bramini scatta l’ubbìa di massacrare un povero cristo. 

Dove la flat tax funziona, massacrare gli evasori refrattari addirittura al jolly della flat tax non è un ubbìa: è un metodo, o paghi o ti massacro. E la gente paga, felice di pagare poco ed essere lasciata in pace. Ma nel Paese dell’anti-Stato, potrebbe mai funzionare uno scambio duro e anche primordiale ma efficiente come questo? Ma figuriamoci…

Salvini lo sa perfettamente che il Viminale e le forze dell’ordine non controllano il territorio, e promette severità. Auguri. Ma ci vogliono anni e soldi, per mantenere questa promessa: e lui non ha né gli uni – se vuol prendere il 40% deve farlo presto -, né gli altri. Perciò è lecito dubitare dell’efficacia della flat tax all’italiana.

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