Cosa vi avevo detto nel mio articolo di lunedì che i mercati, con ogni probabilità, si sarebbero calmati dopo la sfuriata dello scorso fine settimana, innescata dal precipitare della situazione della lira turca? E non perché io sia dotato di poteri divinatori, ma perché chiunque conosca un minimo i mercati sa come reagiscono di fronte alle crisi: se sono reali, non c’è rassicurazione che tenga. Occorre intervenire strutturalmente e sistemicamente, come ci insegna la lezione del 2008. Se invece sono crisi “controllate”, come le demolizioni dei palazzi, allora basta poco. Basta il segnale. E le perdite contenute registrate lunedì dalle Borse, addirittura tornate in positivo ieri mattina, ci dicono che la cosiddetta “crisi turca” – attenzione, basata su criticità macro reali che torneranno presto a farsi sentire – è stata la rappresentazione plastica di questo combinato congiunto. 



Il segnale è arrivato domenica sera, quando tutti guardavano con terrore all’apertura delle Borse asiatiche e le agenzie battevano le dichiarazioni di Erdogan in un discorso alla nazione, dove invitava cittadini e imprese a resistere e a non ritirare i soldi dai conti correnti. Lontano dall’epicentro della crisi, qualcosa sbloccava infatti l’impasse. A Wellington, in Nuova Zelanda, aprivano infatti per motivi di fuso orario le prime contrattazioni del lunedì mattina e la colazione servita ai traders è stata di quelle poco digeribili: lira turca a 7,2 sul dollaro, minimo storico record e, soprattutto, sopra quota 7,1 che a detta di Goldman Sachs rappresentava la linea del Piave per la resistenza dei cuscinetti di capitale delle banche turche. Il messaggio americano al sultano di Ankara era fin troppo esplicito: se vuoi che continuiamo, non c’è problema. Immediatamente, la Banca centrale turca rendeva noto che erano pronti 10 miliardi di lire da iniettare nel sistema e che Andrew Brunson, il pastore evangelico americano ai domiciliari ad Ankara, avrebbe potuto essere liberato a breve. Et voilà, la grande paura è passata nell’arco di mezza giornata di contrattazioni: ieri mattina, la lira turca era al di sotto della soglia di sicurezza di 7 nel cambio sul dollaro. 



Tutto risolto? Nemmeno per nulla, il debito estero turco è eccessivo e qualsiasi ritocco ulteriore all’insù dei tassi Usa è destinato a scatenare tremori (ora l’epicentro del contagio è il Brasile, attenzione se il real arriva a 4 sul dollaro, nel quale caso si potrebbe cominciare a ballare la samba in Sud America, non a caso lunedì la Banca centrale argentina ha stupito tutti operando un sobrio rialzo dei tassi di interesse al 45%, tanto per cautelarsi dal contagio diretto), ma parliamoci chiaro: si è trattato di un attacco speculativo con finalità politiche belle e buone, visto che la lira turca è sotto i riflettori della speculazione almeno dal 2016. 



Certo, martellarla per settimane e poi applicare addirittura sanzioni sui metalli, accelera un pochino la crisi (su cui, ricordatevi, c’è qualcuno che ha scommesso. E guadagnato). Ma i mercati sono tornati in fretta al sereno quando hanno capito che dietro a questa ennesima fiammata lungo la mappa a pelle di leopardo degli hotspot del debito mondiale post-2008 c’è una strategia, la stessa che vi illustro da mesi e mesi: innescare prima un sgonfiamento parziale della bolla del leverage mondiale e poi una crisi controllata che garantisca alle Banche centrali, leggi Fede e Bce, di poter restare in modalità ampiamente espansiva. Leggi, stop all’aumento dei tassi di interesse e prolungamento – ancorché sotto altra forma – del Qe, proprio per evitare che le deliranti contraddizioni e gli squilibri generati da anni di costo del denaro a zero esplodano da un giorno con l’altro, come accadde con Lehman Brothers. E, per ora, l’operazione sta funzionando. Certo, non è indolore. Qualcuno sul mercato si fa male, quando partono fiammate come quella turca, ma sono danni collaterali necessari per evitare che l’incendio di un cestino dell’immondizia si propaghi all’intero palazzo. 

L’epicentro, nemmeno a dirlo, sono gli Usa. E a confermarlo ieri è arrivato il dato del Pil tedesco del secondo trimestre, il quale nonostante le sanzioni – smaccatamente designate per colpire l’export teutonico – è cresciuto dello 0,5% e del 2% su base annua, trascinando quello dell’intera eurozona (2,2%): quando vi dicevo che, alla prova dei fatti, gli unici che stanno già pagando un prezzo alla suicida politica di Trump sono i produttori Usa che pagano maggiormente le materie prime non era per pregiudiziale ideologica, ma solo per realismo. Non a caso, dopo anni in cui il glisofato della Monsanto era quasi ritenuto benefico per le vie respiratorie, di colpo una Corte Usa dà vita a una sentenza degna del film Philadelphia (l’aspetto mediatico-emotivo è fondamentale in questo tipo di battaglie) e ne scopre la pericolosità sanitaria, facendo schiantare la nuova proprietaria, la tedesca Bayer, del 12% al Dax di Francoforte, peggior calo di sempre e livello più basso di valutazione dall’ottobre 2013, come ci mostra il grafico.

 

Guerra signori, con altri mezzi ma guerra. E spietata. Non a caso, sabato sera a Berlino sbarcherà Vladimir Putin per un incontro con Angela Merkel. La quale, oltretutto, fiutando l’aria, ha immediatamente stretto un patto di mutua collaborazione con il nuovo premier spagnolo, Pedro Sanchez, basato ufficialmente sul ricollocamento dei migranti, ma, di fatto, necessario a un fronte comune europeo per reagire all’offensiva d’autunno. L’Italia? Chiedete ai fenomeni al Governo, ora tutti in infradito impegnati a fare selfie, da che parte stiamo, perché c’è della vaghissima confusione sulla linea di politica estera. Come, d’altronde, c’è in seno all’Unione. Ma anche qui, saranno le mosse strategiche a dare un senso e un ordine alle pedine sulla scacchiera. 

Ricordate che, per rimandare i possibili dazi sulle importazioni Usa di automobili statunitensi, Jean-Claude Juncker acconsentì durante la sua visita alla Casa Bianca all’acquisto di maggior quantitativo di gas naturale liquefatto (Lng) statunitense, nonostante i 175 dollari per mille metri cubi di costo rispetto al 120 di quello russo. L’altro giorno, mentre tutti guardavano ad Ankara, si è capito perché. Il gigante cinese PetroChina ha infatti reso noto che potrebbe sospendere temporaneamente per il periodo invernale i suoi acquisti di Lng, proprio per evitare l’impatto del nuovo regime tariffario. E, come ci mostra il grafico, non si tratta di volumi da poco. Primo, perché la Cina è il terzo importatore al mondo di Lng statunitense. Secondo, perché in contemporanea con la minaccia di Pechino, destinata a far mettere le mani nei capelli a produttori americani come Cheniere Energy, titolare dallo scorso febbraio di un contratto per 25 anni di fornitura di gas liquefatto a PetroChina, dall’Iran – altro fronte caldo, sia geopolitico che sanzionatorio – arrivava la notizia che la China National Petroleum Corp. (Cnpc) aveva acquisito la quota della francese Total nel progetto di sviluppo del giacimento petrolifero di South Pars, divenendo ora socio di maggioranza con l’80,1% delle quote.

 

A fronte di investimenti strategici simili nel campo dell’energia, pensate che Pechino permetterà il tanto agognato dal Dipartimento di Stato Usa regime change in Iran, lasciando che Teheran venga strozzata dalle sanzioni? No. E gli Usa hanno già avuto una dura lezione al riguardo la scorsa settimana, quando Pechino ha staccato senza battere ciglio un assegno miliardario al Pakistan, affinché potesse evitare l’abbraccio mortale del Fmi (quindi, di Washington) dopo i risultati del voto. Signori, l’offensiva sin troppo gridata e rivendicata di Washington contro la Turchia ha paradossalmente rappresentato la debolezza della politica americana e confermato un dato di fatto che i media ignorano o fingono di ignorare: Trump sta perdendo la guerra commerciale. E la sta perdendo male. Il tutto, alla luce di una realtà incontrovertibile che è il motore immobile di tutto quanto sta accadendo a livello finanziario, economico, politico e geopolitico al mondo: il deficit di budget Usa nei primi dieci mesi fiscali ha superato i 684 miliardi di dollari a causa proprio delle politiche e delle promesse di Donald Trump, un bel +28% su base annua. 

Di conseguenza, anche le spese per il servizio di quel debito sono salite, toccando nel secondo trimestre di quest’anno, quello del Pil record al 4,1% grazie al boom anticipatorio dell’export in vista proprio dei dazi, quota 538 miliardi di dollari. Questo cosa significa? Semplicemente che, per mantenere vivo il sogno e le promesse dell’America great again, la Fed deve emettere molto più debito. Ma se la situazione debitoria è già questa, con i tassi attorno a un modesto 2%, cosa potrebbe accadere se si arrivasse, entro fine anno, in area 3,25%, come promesso dallo scadenziario della Federal Reserve, in ossequio alla narrativa dell’economia Usa che scoppia di salute? 

Per quanto fletta i muscoli e digrigni i denti minacciosa, l’America di Trump è debole, debolissima economicamente e dipende da due fattori. Prima, bloccare il rialzo dei tassi. E a questo si sta lavorando, con la collaborazione di tutti, europei in testa che non intendono fare a meno della Bce. Secondo, questo: l’impulso creditizio globale cinese, il vero bancomat del mondo, il sostituto assoluto di ogni Qe che finisce, è ai minimi da due anni, il tutto a causa della volontà di Pechino di far sgonfiare la bolla di liquidità del sistema bancario ombra interno. 

 

Insomma, siamo in piena crisi di liquidità. Scarseggiano dollari nel sistema, un bel guaio per chi, come la Fed, fra ritiro del programma di stimolo e aumento obbligato delle emissioni, paradossalmente peggiorerà con il passare dei mesi quella scarsità di biglietti verdi. Serve la stamperia cinese, relativamente in fretta. E le crisi come quella turca servono a questo, a stimolare emergenze. Sperando che a Pechino si decidano. L’America great again dipende mani e piedi dal nemico rosso, dalla Cina. Piaccia o meno ai cantori sia del sovranismo che della presunta primazia della patria del “libero” mercato.