Treni con le ali per salvare Alitalia? Come pubblicato da diverse testate, sembra questa l’idea più forte alla quale starebbe lavorando il Governo per trovare una soluzione alla crisi della compagnia di bandiera. Peccato tuttavia, ammesso che la notizia sia vera, che non si tratti di un’idea nuova, né buona. E peccato ancora di più che nel nostro Paese, ormai da diverso tempo avviato su un percorso di progressivo declino, le idee più assurde non vengano archiviate nel dimenticatoio, ma tornino progressivamente in auge, rispolverate, rilucidate e riproposte come geniali novità.
Alitalia ha da tempo, almeno un ventennio, un grosso problema. Essa opera in concorrenza a seguito della liberalizzazione europea e non può beneficiare di sostegno pubblico in grado di alterare i processi competitivi. Dunque lo Stato né direttamente, né indirettamente, tramite imprese pubbliche sotto il suo controllo, può conferire capitale o finanziamenti al di fuori di una logica di mercato. Le norme europee non vietano lo Stato imprenditore, ma gli impongono, se sceglie questo ruolo, di comportarsi come un imprenditore a tutti gli effetti che investe in una logica di remunerazione del capitale, dunque di profittabilità dell’azienda partecipata. Non può pertanto finanziare imprese in perdita strutturale affinché esse possano fare concorrenza sleale a imprese sane che non godono dei medesimi vantaggi.
Questo vincolo vale per il trasporto aereo dal completamento del processo di liberalizzazione, avvenuto nel 1997, ma non vale ancora per il trasporto ferroviario, il cui processo di liberalizzazione, pur previsto dal quarto pacchetto ferroviario, è ancora ben distante dal suo completamento. Pertanto gli aiuti di Stato sono vietati per le compagnie aeree in quanto altererebbero la concorrenza, ma non lo sono invece per le compagnie ferroviarie salvo che per il segmento liberalizzato del trasporto merci. Essi sono anzi benvenuti e non richiedono autorizzazione preventiva se riguardano gli investimenti o i costi di gestione delle reti. Infatti, più gli Stati si fanno carico di tali oneri, più sono in grado di abbassare il pedaggio che i treni debbono pagare per utilizzare la rete, favorendo dunque il trasporto ferroviario e il riequilibrio modale gomma-ferro che un obiettivo fondamentale della politica dei trasporti dell’Unione.
Nel trasporto ferroviario è inoltre ammesso e non considerato aiuto di Stato il finanziamento di contratti di servizi coi quali si garantisce un’adeguata offerta a tariffe contenute di trasporto a carattere locale che non potrebbe reggersi sulle sole entrate da mercato. Anche questo è un modo per favorire il trasporto collettivo su ferro rispetto al trasporto privato su gomma. Nel caso di FS, sommando tutte le voci autorizzate dal diritto europeo di contribuzione pubblica, arriviamo a più di otto miliardi in media all’anno di soldi pubblici, rispetto ai quali i 300 o 400 milioni di perdite annue di Alitalia fanno la figura di poco più che briciole.
Dunque, riepilogando, gli aiuti di Stato sono vietatissimi nel trasporto aereo, benvenuti nelle reti infrastrutturali ferroviarie e non considerati tali nel trasporto ferroviario passeggeri, purché regolati da appositi contratti di servizio. In tal modo alle ferrovie europee possono arrivare molti soldi pubblici senza che la Commissione europea dica assolutamente nulla. Questa asimmetria nelle norme europee, frutto del diverso stadio del processo di liberalizzazione dei due settori, ha fatto sorgere già molti anni fa in menti italiane la brillante idee che se l’Alitalia-Maometto non può andare alla montagna del sussidio pubblico, allora sarà la montagna del sussidio pubblico ad andare all’Alitalia. E il percorso lo farà sul treno delle FS.
Credo che questa idea risalga almeno alla metà dello scorso decennio (chi scrive si occupa di Alitalia dalla sua crisi del 2004, la sua quintultima se ho contato bene, e di ferrovie dalla prima metà degli anni ’90), ma allora non fece molta strada per il fatto che neppure le FS se la passavano troppo bene. Ancora più datata, in quanto risalente agli anni ’90 e probabilmente da essa copiata, era l’idea simile di integrare in FS l’azienda di trasporto marittimo Tirrenia, settore anch’esso liberalizzato dall’Unione europea tra il 1993 e il 1997. Riguardo ad Alitalia, il Governo Prodi del 2006-08 perseguì una politica di privatizzazione che ebbe termine con il rifiuto della successiva maggioranza di centrodestra di accettare la vendita al gruppo Air France-Klm. Dunque non vennero in mente strani matrimoni tra imprese pubbliche di trasporto a quel Governo, né al successivo, il quale si inventò invece la nuova figura degli “imprenditori di Stato” nelle persone dei “capitani coraggiosi”. Ma i capitani coraggiosi persero per strada il loro coraggio ben prima di trovare il profitto e richiesero presto un nuovo sostegno allo Stato che li aveva in precedenza assemblati per la loro alta missione. Così sotto il governo Letta si ritornò a parlare di matrimoni o almeno di fidanzamenti con imprese pubbliche. Ma le ferrovie si tirarono indietro e dunque toccò a Poste Italiane regalare ad Alitalia un anello di fidanzamento da 75 milioni di euro nella forma di una partecipazione al capitale, ovviamente andata del tutto perduta con la gestione predatoria degli “emiri coraggiosi”.
Con l’Alitalia commissariata e invendibile, senza acquirenti seriamente intenzionati alle porte e con un Governo che preferisce assumersi, giustamente, la responsabilità di un intervento diretto, ecco che la vecchia idea dei treni con le ali che riemerge come i bronzi di Riace dalle acque dell’oblio. Ma è un’idea già accantonata in passato perché sbagliata e pure impraticabile. Questo non implica tuttavia che sia sbagliato anche l’intervento pubblico per risolvere la crisi di Alitalia: esso è corretto, a essere sbagliato è solo lo strumento del coinvolgimento di imprese pubbliche di mercato, siano esse FS, Poste o Cdp. Non è compito delle imprese pubbliche aiutare lo Stato a perdere i soldi dei contribuenti, il loro compito è solo quello di produrre, a condizioni di mercato, e dunque facendo attenzione a recuperare i costi coi ricavi, servizi pubblici fondamentali per i cittadini. Non si può pertanto affidare un’operazione palesemente non di mercato, come sarà almeno sino al raggiungimento del pareggio industriale il salvataggio di Alitalia, ad aziende di mercato, ancorché pubbliche.
Non è opportuno per Poste Italiane, le cui “sinergie” sono già state sperimentate in occasione della precedente partecipazione integralmente andata in fumo; non è il caso per Cassa depositi e prestiti, che non può per statuto, correttamente, acquisire partecipazioni in aziende in perdita e non è opportuno neppure per FS, per le quali esiste un serio problema antitrust, trattandosi del principale concorrente di Alitalia nel mercato dei viaggi nazionali a media-lunga distanza. Se si considera che più di tre viaggiatori su cinque di Alitalia prendono l’aereo su voli domestici anziché il treno, come si fa a pensare di mettere assieme treni e aerei alterando la concorrenza?
In questa fase l’unica possibilità coerente e giustificabile è un intervento diretto ed esclusivo del Tesoro. Questo intervento può essere transitorio: una volta conseguito l’equilibrio economico l’azienda può sia restare pubblica in maniera permanente, per la gioia degli statalisti, oppure anche essere, questa volta con assai più probabile successo, integralmente venduta, per la gioia dei liberisti. Ma solo il Tesoro può, nella fase iniziale, farsi carico in via diretta della ristrutturazione, predisponendo e presentando all’Unione Europea un convincente piano di rilancio affinché essa autorizzi l’ennesimo, ma questa volta effettivamente ultimo, aiuto di Stato. È evidente che il turnaround di Alitalia richiede investimenti e che questi sono potenzialmente elevati, tuttavia può essere sufficiente che l’attore pubblico avvii la svolta di Alitalia, inizialmente senza poter modificare radicalmente la flotta né contando su proventi unitari meno svantaggiosi di quelli attuali, tenuti bassi dalla concorrenza dei vettori low cost, ma rivedendo rotte, uso dei velivoli, politiche di prezzo e contratti tuttora svantaggiosi coi fornitori. Dimostrando che Alitalia può tornare in equilibrio potrà infatti attrarre, in un secondo momento, partner di mercato in grado di mettere a disposizione i cospicui capitali indispensabili per completarne il rilancio.
In questa fase iniziale di salvataggio e indispensabile arresto delle perdite è opportuno mettere dei paletti precisi con la finalità di assicurare che l’indispensabile intervento pubblico non si traduca per l’ennesima volta in uno spreco di risorse che i contribuenti potrebbero utilizzare meglio nelle loro scelte private. Si tratta del seguente pentalogo:
1) Il primo requisito è di dimostrare, prima di mettere altri soldi pubblici, pochi o tanti, che Alitalia è in grado di non perderli. Questa è una condizione irrinunciabile, altrimenti dopo i “contribuenti coraggiosi” (sino al 2008), i “capitani coraggiosi” (2009-14) e la toccata e fuga rapida degli “emiri coraggiosi” (2015-2 maggio 2017) ritorneremo daccapo coi contribuenti coraggiosi.
2) Il secondo requisito, poiché l’intervento pubblico è non di mercato, è di non coinvolgere imprese pubbliche per le quali abbiamo impiegato decenni per cercare di farle diventare di mercato.
3) Il terzo requisito è di non alterare la concorrenza, come accadrebbe con l’ipotesi pubblicata nei gironi scorsi da diverse testate, di aggregazione con FS.
4) Il quarto requisito è di non cadere nella tentazione, come già il governo in carica nel 2008, di alterare le regole esistenti per adattarle al caso specifico, come accadde con il d.l. 134 del 2008 (il cosiddetto decreto Fenice).
5) Il quinto è di rispettare le norme e le procedure europee, evitando dannosi conflitti.
Questi cinque punti rappresentano le condizioni minimali affinché un liberale come lo scrivente, sostenitore della libera iniziativa economica e dell’assenza di intervento pubblico in mercati funzionanti, sia invece favorevole a un efficace intervento pubblico nel caso specifico della crisi di Alitalia.