Ieri siamo stati costretti a leggere su importanti organi di informazione nazionale articoli talmente fuorvianti che facevano dubitare della buona fede degli estensori. In particolare sulla parte della “multa/indennizzo” qualora lo Stato italiano decidesse di togliere la concessione ad Atlantia. L’indennizzo che lo Stato pagherebbe, giustamente, avrebbe come contropartita tutta la concessione oggi in mano ad Atlantia. Lo Stato italiano spenderebbe dei soldi per “ritirare” la concessione da Atlantia, ma dall’altro avrebbe la proprietà di un asset che nel 2017 è stato valutato 14,8 miliardi di euro in una transazione tra operatori di mercato in cui Atlantia ha venduto circa il 12% di Autostrade per l’Italia. 



Se lo Stato italiano ritira la concessione ovviamente indennizza Atlantia con un esborso importante, ma poi si ritrova anche la concessione che vale la cifra di cui sopra. A quel punto si possono immaginare un numero infinito di scenari che vanno dallo Stato che si tiene la concessione e la statalizza a una nuova gara con un nuovo concessionario privato che “paga il corrispettivo” al Governo, il prezzo della concessione, fino a una ripartizione tra Stato e privato della stessa concessione in cui lo Stato si tiene una quota più o meno alta o bassa.



Riguardo alla possibilità per lo Stato italiano di ritirare la concessione “espropriandola” per una colpa del concessionario, bisogna ammettere che le disposizioni della convenzione unica del 2007 prevedono una serie di condizioni molto specifiche che saranno materia di avvocati. Su questa vicenda ci limitiamo a osservare come in molti abbiano notato che le convenzioni firmate dallo Stato, soprattutto all’inizio delle privatizzazioni, assumessero una controparte meno terza di quello che poi è stato. È come se lo Stato italiano avesse firmato delle convenzioni assumendo che la controparte fosse in un qualche modo ancora pubblica, o perché se pur trasformata in spa ricadeva ancora nel perimetro statale, oppure presupponendo un’evoluzione societaria meno “privatista”. Questa può essere la ragione di fondo della forza della concessione di Autostrade per l’Italia, perché lo Stato italiano forse non ha inserito tutti gli elementi che avrebbe inserito se avesse previsto di avere a che fare con una controparte completamente terza e privata. La questione è quindi complicata e ci esimiamo da una valutazione legale. Quello che possiamo dire a buon senso, ma non è detto che il buon senso coincida con il diritto, è che ci sia comunque la responsabilità che la rete sia manutenuta in modo che non si verifichi, se non per eventi esterni imprevisti (un terremoto), la possibilità di un crollo di un ponte. 



Rimane aperta la questione che sta emergendo in questi giorni del rendimento con cui negli ultimi 20 anni si sono remunerati gli investimenti dei concessionari autostradali. È una questione su cui autorevolissimi osservatori hanno sollevato dubbi. Dire che lo Stato non debba essere concessionario o gestore di autostrade e che il privato se ne possa o debba fare carico non esime da una valutazione sul costo con cui si paga questa attività di gestione al privato.

Questo si collega bene con un altro tema che oggi viene portato in primo piano, e cioè la valutazione sulla costruzione di un percorso alternativo (la “gronda”) rispetto al ponte Morandi crollato martedì. Ci sono due elementi che si intersecano rendendo il dibattito sterile. Un primo elemento è se fosse opportuno avere una nuova infrastruttura in grado di supportare meglio un volume di traffico superiore. Il secondo elemento è il costo di quella infrastruttura. 

Nell’attuale meccanismo, il costo dell’infrastruttura e il rendimento dell’investimento vengono spalmati su un numero molto alto di anni. La ragione è che si vuole effettuare l’opera evitando un aumento delle tariffe autostradali. Siccome i ricavi non devono aumentare, perché non si vogliono aumentare troppo le tariffe, e siccome il concessionario rivedrà i suoi soldi solo alla fine della concessione, occorre garantire al concessionario un rendimento fisso, in questo caso poco più del 7% reale post tasse, per tutto il tempo che intercorrerà tra l’investimento e la sua restituzione. È lo stesso effetto che si realizza quando si paga a rate la televisione al posto di pagarla subito; in questo caso siccome il pagamento avviene nel corso di oltre 20 anni la differenza tra il costo iniziale e il costo finale, inclusivo degli interessi, è molto consistente e questa differenza rappresenta “il guadagno” del concessionario. Le domande quando si acquista la televisione sono due: la prima è se ci serve, la seconda è quanto ci costa pagarla a rate, visto che oggi non abbiamo i soldi. Lo Stato italiano è nella stessa situazione, visto che non ha i soldi per pagare quell’infrastruttura autonomamente e subito. Perché non abbia i soldi – l’Europa o sprechi infiniti dell’amministrazione pubblica – è un’altra questione ancora. 

Anche chi ritiene che serva una nuova infrastruttura, come chi scrive, e vuole avvalersi di un privato non può esimersi da una riflessione su quale sia il rendimento giusto e se nell’attuale configurazione non si rischi di pagarlo un multiplo dell’investimento iniziale con una remunerazione eccessiva per il concessionario. Se l’infrastruttura è necessaria e serve occorre uno sforzo di “immaginazione” per costruire un meccanismo che funziona in cui i rendimenti siano ragionevoli e che non si limiti a scaricare su quelli che verranno il costo avvalendosi del contributo interessatissimo del privato che risolve il problema volentieri, ma a carissimo prezzo.