Il recente Rapporto Svimez 2018 sull’economia e la società del Mezzogiorno, all’interno del consueto ricco ventaglio di numeri e di analisi, ha posto in evidenza soprattutto un trend che ha assunto dimensioni preoccupanti e che non può più essere tollerato: l’impoverimento demografico che tocca tutto il Sud con conseguente perdita di capitale umano. Negli ultimi 16 anni, infatti, quasi due milioni di residenti hanno abbandonato il Sud: la metà sono giovani fra i 15 e i 35 anni, di cui quasi un quinto laureati e il 16% emigrati all’estero. Questi dati non possono non indurre ad alcune riflessioni.



Il danno antropologico. L’assoluta inefficienza, salvo rare eccezioni, del settore pubblico e delle amministrazioni statali, la carenza di controllo del territorio (sicurezza e rispetto delle regole) e il familismo amorale del Sud hanno provocato un grave danno antropologico o, per meglio dire, hanno nel tempo generato una mentalità chiusa rispetto alla realtà, poco ricettiva ai cambiamenti, a nuove esperienze e a nuove sfide. È infatti drammaticamente percepibile tra i cittadini del Sud – siano essi adulti o giovani, ormai abituati e rassegnati a vivere nel pressappochismo – un atteggiamento quasi sempre passivo nell’affrontare il presente, un atteggiamento che genera molto spesso un disagio economico e sociale. 



Si parla sempre di diritti, ma i doveri? Il divario di produttività tra le aziende del Nord e quelle del Sud (la produttività di un lavoratore del Nord è mediamente superiore del 30% rispetto a quella di un lavoratore del Sud a parità di salario) è dovuto certamente a una serie di fattori endemici, più sfavorevoli, ma soprattutto a un comportamento passivo da parte di giovani e adulti nell’affrontare il presente, che sfocia nell’immobilismo: tutto è dovuto, anche il “diritto” a un lavoro, a un futuro migliore. È lo Stato che ci deve pensare, per cui basta soltanto attendere che la realtà cambi, non è necessario lavorare e “lottare” per creare delle opportunità che permettano di crearsi un lavoro e di conquistare un domani migliore. Purtroppo questa mentalità, assai radicata negli adulti, è stata trasmessa anche alle nuove generazioni, che sono così diventate più deboli e incapaci di desiderare, di sacrificarsi e di intraprendere per raggiungere degli obiettivi. Una mentalità che si fa strada già nella scuola, dove spesso, con atteggiamenti paternalistici e accondiscendenti da parte di insegnanti e famiglie, viene risparmiata ai giovani la fatica di apprendere, di conquistare una “meta”, ovvero di crescere. 



Superare l’emergenza educativa. Il deficit di “education” al Sud rappresenta una seria emergenza italiana. È necessario investire con decisione sulla “lifelong learning” (formazione permanente) in un’ottica di apertura alla complessità del reale e con un’attenzione all’internazionalizzazione. Occorre, in particolare, “investire” sui giovani nella costruzione di nuove competenze, attivando una proficua sinergia tra scuola, università, enti formativi e aziende. La sola formazione, tuttavia, cioè la mera trasmissione-acquisizione di abilità e competenze operative socialmente utili, non è sufficiente senza “educazione”, intesa come “introduzione alla realtà totale”, nel rispetto della libertà individuale. Tale concezione dell’educazione chiede di mettere al centro la persona: un soggetto da rispettare, un io che vuole crescere e che, per questo, deve essere favorito e aiutato nell’affrontare il presente. Come amava ripetere don Luigi Giussani, “La soluzione dei problemi che la vita pone non avviene direttamente affrontando i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto”. La vera educazione, che nasce dall’incontro tra due soggetti, da uomo a uomo, ha infatti ricadute evidenti sull’istruzione e, di conseguenza, sulla costruzione di un nuovo tessuto sociale: la vera educazione produce valori, dinamismo, passione, apertura agli altri, coraggio nell’affrontare le novità e volontà di cambiamento.

Un salutare processo di empowerment. Oggi tutti parlano di capitale umano e di educazione. Ma è fondamentale affrontare la questione a partire da risposte concrete, praticate, possibili, vive. Un “giovane cervello” non sceglie certo di restare al Sud per la prospettiva di poter contare su un “reddito di cittadinanza”, né decide di rimanere a studiare nelle università meridionali, seppur di prestigio, se queste non offrono standard di qualità concorrenziali. Neppure la flat tax potrebbe contribuire al rilancio degli investimenti e dell’occupazione nel Mezzogiorno dove il tessuto imprenditoriale, contrariamente a quanto accade al Nord, si presenta più debole e sfilacciato. Il primo passo da compiere, dunque, è investire seriamente e concretamente sul capitale umano e sulle infrastrutture, oggi carenti e fatiscenti, come ha ben sottolineato il Rapporto 2018 della Fondazione per la Sussidiarietà dedicato ai giovani del Sud. E tale opzione può essere perseguita adeguatamente solo valorizzando le persone per farle crescere sia come soggetti, sia come professionisti realizzati nel proprio lavoro, al fine di favorire il successo individuale e dell’organizzazione di cui fanno parte, attraverso l’impegno, il desiderio e la passione. Solo così si può dar vita a un processo di empowerment, cioè di crescita, sia dell’individuo che del gruppo, fondato sull’incremento dell’autostima, dell’autoefficacia e dell’autodeterminazione, fattori che fanno emergere nel soggetto e nel gruppo la consapevolezza delle proprie potenzialità e delle proprie risorse.

Questo processo è in grado di portare al rovesciamento della percezione dei propri limiti, in vista del raggiungimento di risultati superiori alle proprie singole aspettative, generando una cultura orientata al positivo. Perché il Sud Italia deve porsi l’obiettivo e deve avere l’ambizione di tornare a essere, secondo un’intuizione secolare e un dato geografico, “il centro” del Mediterraneo. Saprà, il Sud, cogliere questa occasione?

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