Il tragico evento di Genova ha fatto sorgere urgenti domande sulla qualità e l’efficacia dell’intervento pubblico nel settore delle autostrade in concessione. Che cosa ha fatto il ministero dei Trasporti e il concedente Anas per controllare l’operato del concessionario Autostrade per l’Italia sia dal punto di vista dell’esercizio delle tratte assegnate che degli interventi manutentivi, ordinari e straordinari? E le tariffe di pedaggio che sono state autorizzate nel tempo erano giustificate dai costi di esercizio a carico dell’operatore e dagli investimenti promessi negli accordi di concessione? Sono domande alle quali non si può dare una risposta precisa per carenza delle necessarie informazioni, che non sono pubbliche, ma si intuisce che essa sia tendenzialmente negativa e con grande probabilità anche molto negativa.



Dopo la privatizzazione del 1999 sembra infatti che il settore pubblico abbia volutamente minimizzato il suo ruolo nel settore quasi nell’intento di non arrecare disturbo al soggetto regolato. Questo vale tanto per la regolazione tecnica quanto per quella economica. Riguardo ai controlli tecnici alcuni giorni fa il Secolo XIX ha scritto che il concessionario se li faceva da soli: “Autostrade è, di fatto, l’unico controllore di se stesso, esegue con personale proprio ispezioni e autocertificazioni, oppure le affida a consulenti pagati dalla medesima società. Nessun ente pubblico compie screening autonomi, perversione d’una norma le cui conseguenze possono essere catastrofiche”. Al riguardo sconcerta l’assenza, non è che chiaro se per mancanza di obbligo legale o per mancanza del suo rispetto, di un monitoraggio pubblico indipendente da quello del titolare della concessione. Si tratta di una situazione che poteva forse essere giustificata quando la società Autostrade era pubblica, appartenendo all’Iri, e in conseguenza poteva risultare un’inutile duplicazione che la mano pubblica sinistra del concedente Anas verificasse i controlli della mano pubblica destra del concessionario Autostrade, trattandosi di due mani dello stesso corpo pubblico. Ai tempi bastava la seconda, ma dopo la privatizzazione era invece indispensabile la prima. Anche in questo caso sembra che nessuno se ne sia accorto, non sapremo mai se per sciatteria burocratica o per esplicita volontà di non disturbare il soggetto regolato.



Se la regolazione tecnica sembra essere avvenuta secondo il noto criterio di Gigi Marzullo “si faccia una domanda e si dia una risposta”, ovvero “si faccia un controllo e se lo autocertifichi”, la regolazione economica, quella che a partire dai piani finanziari definisce i pedaggi e in conseguenza anche i ricavi e i profitti, non sembra essere stata da meno. La privatizzazione di Autostrade avvenuta nel 1999 fu fatta violando la legge. Infatti, una norma generale sulle privatizzazione del 1994 richiedeva che prima di privatizzare imprese operanti nei servizi di pubblica utilità, spesso monopolisti o comunque soggetti a scarsa concorrenza, si istituisse un regolatore indipendente per la determinazione delle tariffe e il controllo della qualità. È adempiendo a questa norma che prima di quotare in borsa Enel, senza peraltro che sia mai venuto meno il controllo pubblico, fu istituita l’Autorità per l’energia che oggi si chiama Arera, e prima di privatizzare Telecom fu istituita l’Agcom. In maniera simile, prima di privatizzare Autostrade o gli aeroporti occorreva istituire l’Autorità dei trasporti, l’arbitro dello specifico mercato. Invece l’Art è nata solo nel 2011, pienamente operativa solo dal 2013, ma la sua legge istitutiva ha stabilito che per il settore autostradale deve occuparsi solo delle nuove concessioni, non di quelle vecchie. Dunque un monopolio pubblico in cui la concorrenza non è proprio possibile è stato trasformato in un monopolio privato senza che ad alcun regolatore indipendente sia dato il compito di occuparsene nella sua interezza.



Prima della privatizzazione del 1999, e anche per qualche tempo dopo, l’istruttoria sulle tariffe pubbliche dei settori che non avevano un regolatore indipendente, di fatto tutti tranne quelli energetici che erano regolati dall’Autorità omonima, era svolta da una commissione tecnica consultiva presso il ministero del Tesoro, che si chiamava Nars. Il Nars aveva sede pressa la segreteria del Cipe, il Comitato interministeriale della programmazione economica, al quale forniva i suoi pareri. In base a essi, il Cipe dava il via libera alle tariffe pubbliche dei diversi settori. In relazione alle tariffe autostradali il Nars, del quale chi scrive è stato membro in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dal 1996 al 1999, aveva predisposto un interessante meccanismo di adeguamento tariffario in base al quale le tariffe avrebbero potuto anche diminuire da un anno all’altro, qualora l’aumento dei livelli di traffico sulle reti avesse superato l’aumento riconosciuto dei costi di gestione. Per spiegarlo in maniera semplice, in presenza di un aumento di costi del 3% e del traffico del 3% le tariffe avrebbero dovuto restare invariate in quanto i maggiori costi sarebbero stati esattamente compensati dai proventi del maggior traffico. Ma se il traffico fosse aumentato del 5% le tariffe dovevano diminuire, al fine di evitare un profitto ingiustificato al gestore. Questo meccanismo non piacque né ai soggetti regolati, né al Governo, tanto che i regolati si fecero approvare i consueti aumenti tariffari al posto delle previste riduzioni direttamente per decreto ministeriale e non più tramite delibera del più attento Cipe.

Ma questa regolazione tariffaria su misura non è stata certo l’unico vantaggio regalato dal settore pubblico. Tutte le concessioni autostradali sono da sempre secretate, non le ha neppure l’Autorità dei trasporti, e all’opinione pubblica e agli studiosi del settore non è possibile conoscere cosa prevedono. All’inizio di quest’anno il ministro Delrio ha finalmente deciso di renderle pubbliche. Esse sono state dunque rese disponibili sul sito del Ministero. Peccato manchino gli allegati di maggiore interesse, in particolare i piani finanziari che giustificano le tariffe e loro variazioni nel tempo. Solo dai piani finanziari è possibile comprendere se le tariffe e la loro crescita nel tempo sono giustificate o meno, se e quanti profitti sono stati generosamente regalati dal settore pubblico a spese dei viaggiatori, se i concessionari rispettano le promesse di investimento che le tariffe permettono comunque di recuperare.

Un vantaggio ulteriore è stato il mantenimento anche dopo la privatizzazione del principio che si possa caricare in tariffa già oggi il recupero finanziario di un investimento che si farà forse in futuro, generando in tal modo immediati effetti benefici sui profitti aziendali. Questa regola ha senso eventualmente per gestori pubblici, non per gestori privati. Andava bene per un sindaco che doveva rifare un acquedotto e che anziché aumentare le tasse ai cittadini aumentava invece preventivamente la tariffa dell’acqua potabile così da poter accantonare i soldi necessari per l’investimento. Ma la stessa cosa non ha alcun senso per un gestore privato il quale, una volta incamerata la maggiorazione tariffaria per investimenti futuri, può tranquillamente iniziare a distribuirla sotto forma di dividendi agli azionisti e bonus ai manager.

Se l’albergatore Tizio vuole fare investimenti per migliorare la sua struttura e passare da tre a cinque stelle aumenterà i prezzi della camere dopo che i miglioramenti saranno fruibili dagli ospiti, non prima. Se la farà prima i suoi clienti fuggiranno dato che opera in concorrenza, evitando di pagare un tre stelle come se ne avesse cinque. Invece nel caso dei gestori autostradali, così come di quelli aeroportuali, i clienti non possono scappare, trattandosi di monopoli naturali. E questa è una ragione aggiuntiva del non senso regolatorio che una maggiorazione tariffaria possa precedere gli investimenti anziché accodarvisi.

L’ultimo vantaggio tra quelli sino al momento scoperti è scritto direttamente all’articolo 9 della convenzione del 2007 con l’Anas: il concedente in caso di grave inadempienza del concessionario può far decadere la concessione, ma in tal caso deve immediatamente indennizzarlo di tutti i profitti che avrebbe conseguito per tutti gli anni residui della concessione. Questa clausola è davvero stupefacente in quanto se devo chiudere un contratto per grave violazione del contraente sono io a doverlo indennizzare garantendogli tutti i profitti futuri. Dopo aver letto questa clausola sono andato subito a vedere chi avesse sottoscritto il contratto per conto dell’ente pubblico concedente dato che mi aspettavo di trovarvi la firma di Babbo Natale. Ovviamente è anche una clausola giuridicamente insostenibile e a mio avviso fonte di nullità: infatti, la revoca della concessione dovrebbe essere la sanzione più consistente a carico della parte inadempiente, ma se a fronte di essa occorre comunque versare i profitti che avrebbe realizzato ciò significa esattamente l’assenza di alcun tipo di sanzione economica a fronte di qualsivoglia danno che il concessionario possa arrecare. Essa equivale a esentare il concessionario da ogni responsabilità a fronte di inadempienze. In quali altri contratti, pubblici o privati, si trovano clausole del genere?

Dunque è inevitabile che il testo della convenzione debba essere rivisto dal Governo attuale e in caso di non assenso del concessionario questa potrebbe già essere una motivazione sufficiente per un atto unilaterale del concedente.