Una slavina, una frana di dati deprimenti: e non discutibili, nella loro freddezza storico-cronologica. È il quadro che restituisce il rapporto Svimez 2018 sull’economia del Mezzogiorno, presentato ieri in anteprima. Eppure, qualcosa di fertile, di germinale e di straordinariamente positivo, sotto i dati più brutti del mondo – disoccupazione ai massimi, precariato diffuso, fuga dei cervelli – c’è e anzi cresce. E può essere fatto crescere sempre di più e sempre più velocemente. Ne è convinto- non da solo, anzi bene accompagnato – un economista prestato fino a due mesi fa alla politica, di grande spessore scientifico, ma di grande esperienza amministrativa come Amedeo Lepore, per anni assessore alle Attività produttive della Regione Campania, incarico lasciato a fine maggio. “Questi dati possono essere guardati da vari punti di vista – spiega Lepore al Sussidiario in quest’intervista – I dati storici sono brutti, quelli di tendenza no”, sintetizza il professore, che insegna Storia economica all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”. “Il Mezzogiorno in realtà, lo dimostrano quei dati, si è economicamente risvegliato: il problema è aiutarlo a spingere questa tendenza finalmente positiva fino a fargli recuperare i ritardi accumulati nel passato. Ci si può riuscire? Si può mantenere questo trend positivo? Secondo me sì: dipende dalle politiche economiche che si scelgono…”.



Partiamo dall’inizio, professore. Dalla storia di questo gap, dalla storia dell’arretratezza economica del Sud.

È presto detto, l’unico periodo di convergenza tra l’economia meridionale e quella del resto del Paese si è avuto nei vent’anni di fuoco della Cassa per il Mezzogiorno. Prima e dopo, c’è stata sempre e solo divergenza. D’altronde, è impensabile riproporre quel modello di intervento pubblico nell’economia del Sud. La Casmez fu vissuta come un prototipo internazionale che avrebbe dovuto essere sperimentato in Italia, un Paese per metà avanzato e per metà arretrato, e poi esportato in altre economie interamente sottosviluppate. In sintesi, la si può raccontare così: il divario sta nel fatto che il Sud cresce a un ritmo pari al 56% della crescita del Pil del resto del Paese e quindi la distanza è incolmabile ed è aggravata dai problemi sociali: ma in quest’ottica non se ne esce, non si scappa, si rimane incastrati sotto il peso del macigno del dualismo italiano.



E invece?

Invece c’è anche la possibilità scientifica di guardare a questi dati, produttivi, che ci fornisce un quadro di dinamiche economiche in movimento. E positive.

Quali?

Tra 2015 e 2017 il Pil del Sud è cresciuto del 3,7%: questo è un dato molto positivo, perché segna un sorpasso nella velocità di crescita rispetto a quella del Centro-Nord, pari al 3,3%, e dell’intera Italia, ferma al +3%. Se poi si disaggrega il dato per regioni, si scopre che in quel triennio 2015-2017 la Campania è cresciuta del 5,5%, la Calabria del 4,1%, la Basilicata, per piccola che sia, dell’11,2%. 



E allora? Come mai tanti altri indicatori crollano?

Approfondiamo. Sempre dal 2008 al 2017 gli investimenti produttivi crollano del 31,6% nel Sud e solo – si fa per dire – del 20% nel Centro-Nord. Ma negli ultimi tre anni c’è un recupero forte: gli investimenti industriali in senso stretto sono saliti del 17,9% nel Sud mentre nel Centro Nord solo del 9,4%. Addirittura nel disastrato settore delle costruzioni la crescita è stata del 26,7%, contro un magro +17,2% del resto del Paese. Ecco i due dati che – pur tra tanti altri problemi – danno il senso di una direzione di marcia nuova, di un nuovo trend. 

Ma le previsioni sono pessimistiche…

Sì, ma sono sono state fatte in assenza di una nuova Legge di bilancio e di un nuovo Documento di economia e finanza, con i chiarimenti sulle politiche economiche da adottare. Questi dati ci dicono che, in assenza di una politica economica mirata, il Sud passerà da una crescita dell’1,4% allo 0,7%. Essendo io un ottimista che però non vuole mettere gli occhiali rosa, affermo che l’unica strada per valorizzare il trend positivo è intensificare gli investimenti industriali. Quelli che sono cresciuti nel Sud, e sono tanti, non sono di provenienza pubblica. Sono investimenti privati, affluiti sulla base di condizioni incentivanti sostenibili per lo Stato: incentivi industriali, sgravi fiscali, accoglienza globale di un territorio dove sono cresciute bene una serie di imprese di eccellenza di rilevanza mondiale. Nell’Unione europea dal 2008 al 2017 c’è stata una crescita del Pil dell’8,4%, mentre in Italia, complessivamente, abbiamo perso il 5,5% e il Mezzogiorno addirittura il 10%. Questo crollo ha scontato l’assenza di politiche europee efficienti, il cattivo uso dei fondi strutturali e vari altri fattori frenanti. Ma il dato molto confortante è che gli investimenti industriali privati si sono concentrati nel Sud. 

Anziché al Nord?

Sì, ma proprio qui emerge un altro dato favorevole, dalla ricerca Svimez. Il Mezzogiorno è prezioso per il Nord, perché la domanda interna per consumi e investimenti proveniente dal Mezzogiorno attiva il 14% del Pil del Centro-Nord, pari a 186 miliardi nel 2017, il che significa che il Nord grazie alla domanda del Sud ha avuto 186 miliardi in più di crescita. In più, le filiere industriali meridionali hanno lavorato molto bene: l’automotive, l’abbigliamento, l’agroalimentare e l’aerospazio, le nostre ‘quattro a’, oltre alla farmaceutica, sono andate molto bene. Al 50% queste filiere hanno preso beni strumentali e semilavorati da altre imprese e hanno prodotto export. Si è creato un circolo virtuoso di interdipendenza Nord-Sud. Emerge una chiara reciprocità di interessi.

E dunque, cosa ne deduce?

Che se non vogliamo condannare il Mezzogiorno a una politica assistenziale superata e non più sostenibile, che lascia le attività produttive e i residui fiscali al Nord dobbiamo tornare a creare sviluppo produttivo, promuovendo il convergente interesse ad affrontare i problemi sociali gravissimi – dalla disoccupazione alla fuga cervelli – che ci colpiscono. In che modo? Innovando all’insegna della qualità i servizi pubblici e la Pubblica amministrazione per sostenere lo sviluppo produttivo. Se si fa la scelta non di puntare alla ripartizione delle funzioni ma alla loro interrelazione, questi investimenti privati che stanno già arrivando cresceranno, accompagnati magari da crediti d’imposta, da contratti di sviluppo, da formule di decontribuzioni per chi assume. Sono misure che giovano e sostengono gli investimenti industriali.

(Sergio Luciano)