“La vera utopia oggi insostenibile e stupida è di pensare che l’attuale modello di sviluppo possa risolvere i problemi: povertà, diseguaglianze, disoccupazione, messa in sicurezza del territorio e delle infrastrutture. Lo sviluppo sostenibile è l’unico degno di essere realizzato, ma ciò richiede un cambio radicale nella progettazione”. È la convinzione di Enrico Giovannini – ex presidente Istat, ex ministro del Lavoro nel governo Letta, professore ordinario di Statistica economica all’Università Tor Vergata di Roma e portavoce di Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) – che oggi interverrà al Meeting di Rimini sul tema “Oltre il Pil: lavoro, sostenibilità, bene comune”.



Professore, ha senso parlare di andare oltre il Pil in un Paese come l’Italia che da troppi anni cresce a ritmi anemici?

Questa fu la critica che venne mossa al presidente Sarkozy quando nel 2008 annunciò la creazione della commissione Stiglitz, di cui feci parte. Soprattutto gli americani dissero: ecco, la Francia non cresce e provano a spostare l’attenzione su altri temi. In realtà, la discussione su come “andare oltre il Pil”, che ormai data dal 2004, cioè da quando a Palermo organizzammo come Ocse il primo forum su questo argomento, ha dimostrato in modo inequivocabile che il Pil di per sé è un indicatore sbagliato anche per misurare il benessere economico dal punto di vista delle persone.



Dove sta il difetto?

Le faccio un esempio. Nel 2017 il Pil italiano è cresciuto dell’1,5% circa. Il reddito disponibile delle famiglie, cioè quel reddito che va a migliorare la condizione delle famiglie stesse, è invece aumentato solo dello 0,6%.

Questo cosa vuol dire?

Vuol dire che il modo in cui funziona l’economia può determinare una grossa differenza tra la misura della produzione totale di beni e servizi, appunto il Prodotto interno lordo, e quanto va a beneficio delle persone, le quali hanno, al di là dei comportamenti economici, anche dei comportamenti sociali. Prima delle elezioni molti mi chiedevano: ma perché le persone non sembrano accorgersi del miglioramento dell’economia e non tengono conto di questo nei propri giudizi di voto?



La sua risposta?

Era appunto questa: lei prenda il suo stipendio, calcoli l’1,5% e poi lo divida per un po’ più di due, che è l’aumento medio del reddito disponibile. È un buon esempio per dire che, in un mondo globalizzato, caratterizzato da grandi migrazioni e in cui l’innovazione tecnologica tende a concentrare il reddito e la ricchezza nelle mani dei già ricchi, un aumento del Pil non necessariamente si riflette in un miglioramento di condizioni di vita della popolazione. Quindi, se vogliamo capire come evolve il benessere, anche solo economico, delle persone non può bastare il Pil. Senza dimenticare che il benessere delle persone non è fatto solo dal reddito, ma dalle condizioni ambientali, dalle condizioni sociali, dalla sicurezza e da altri temi che sono stati presi in considerazione all’interno degli indicatori del Bes (Benessere equo e sostenibile), l’iniziativa che sviluppammo all’Istat nel 2010 quando ero presidente e che, a partire dal 2013, fornisce un rapporto annuale sullo stato del benessere del nostro Paese. È un po’ come quando vogliamo acquistare un’auto: lei sarebbe disposto a comprare una vettura che sul cruscotto le dà solo l’indicazione della velocità? Ecco perché, quando si debbono prendere decisioni a livello politico, ma non solo, è meglio avere a disposizione una molteplicità di indicatori, a patto che il cruscotto non sia troppo complicato.

Non si corre questo rischio con il Bes, che deve valutare la qualità della vita attraverso un ventaglio troppo ampio e variegato di indicatori?

Il Bes nasce come progetto in due passi. Nel primo, coinvolgemmo, attraverso il Cnel, le varie componenti della società civile italiana per discutere su “cosa” fosse importante misurare; poi chiedemmo agli esperti statistici “come” misurare i fenomeni selezionati. In alcuni casi gli indicatori erano già disponibili, in altri era più difficile, se non impossibile, misurare in modo corretto quegli aspetti. Il frutto di quel lavoro è un insieme di circa 130 indicatori, quindi un quadro molto articolato, poi suddiviso per genere, per territorio e così via. Fin dall’inizio del progetto mi ero posto l’obiettivo che la politica prendesse in considerazione questi indicatori nella valutazione degli interventi concreti, è questo è avvenuto con l’inserimento degli indicatori Bes nel Documento di economia e finanza (Def). Poiché non è possibile simulare l’effetto di un intervento di politica economica, sociale o ambientale su tutti i 130 indicatori, è stata istituita una commissione che ne ha selezionati, ai fini dell’introduzione nel Def, 12, quattro dei quali sono stati, in via sperimentale, già inglobati nel Def 2017.

Che cosa ci dicono questi quattro indicatori?

Che negli ultimi anni le diseguaglianze e la povertà sono peggiorate anche in presenza di un aumento del Pil. Ma il valore principale dell’inserimento nel Def degli indicatori Bes è che non viene fatta solo un’analisi retrospettiva; il Governo deve anche indicare gli andamenti tendenziali degli indicatori per i prossimi tre anni e gli effetti delle politiche proposte. Visto che ci sono state le elezioni, ad aprile scorso il governo precedente ha elaborato solo le previsioni tendenziali, senza poter mettere mano a quelle programmatiche. Ora il nuovo governo sta preparando la legge di Bilancio, e sarebbe importante che mostri l’effetto delle politiche attese sugli indicatori Bes.

Reddito di cittadinanza, flat tax e decreto Dignità che impatto potrebbero avere in termini di contrasto alla povertà e a favore dell’inclusione sociale?

Domanda legittima, risposta complicata, perché tutto dipende da come verranno disegnati i vari interventi. Per esempio, il Reddito di inclusione introdotto dal governo precedente non dovrebbe essere in grado di ridurre il numero di poveri, e quindi non avrebbe effetto sull’indicatore incluso nel Def.

Perché?

Essendo calcolato in cifra fissa rispetto al numero di persone del nucleo famigliare in povertà, e viste le poche risorse disponibili, non è disegnato per colmare interamente la distanza tra il reddito di una famiglia e la soglia di povertà. Di fatto attenua solo la gravità della povertà, ma non riduce il numero di poveri. Quindi, per valutare il Reddito di cittadinanza di cui parla il governo bisognerebbe capire se riuscirebbe a colmare la distanza reale tra reddito disponibile e soglia di povertà, cosa che farebbe diminuire il numero di persone povere.

La stessa cosa vale per la flat tax?

Se si fa una flat tax classica, le diseguaglianze peggiorano, ma se si ridisegna tutta la curva fiscale, per esempio intervenendo su agevolazioni, detrazioni e così via, allora l’indicatore di diseguaglianza potrebbe addirittura migliorare. Ecco perché non si può dire in anticipo cosa succederà.

Globalizzazione, flussi migratori, cambiamenti tecnologici hanno reso il lavoro più flessibile, il che molte volte si traduce in precarietà. Come si può oggi riqualificare e rilanciare il lavoro?

È il tema della Commissione globale sul futuro del lavoro, di cui faccio parte, presso l’Organizzazione mondiale del lavoro. È una questione che riguarda non solo l’Italia. Le preoccupazioni per l’impatto che l’innovazione tecnologica, ma non solo, può avere sul lavoro sono molto forti e questo al di là delle tipologie di contratto con cui il lavoro viene realizzato. Se noi consideriamo come flessibilità l’idea che, in futuro, nel corso della vita lavorativa sarà più probabile dover cambiare lavoro frequentemente, allora possiamo mettere in campo politiche che assicurino, da un lato, un sostegno al reddito nelle fasi transitorie e, dall’altro, una formazione continua durante tutto l’arco della vita: in questo modo, stiamo parlando di una flessibilità non devastante per gli individui, anzi potenzialmente di un fenomeno che favorisce la mobilità sociale. Se, invece, parliamo di flessibilità realizzata unicamente con contratti a breve termine con lunghe pause di inattività, allora dobbiamo riconoscere che una tale situazione non va bene perché questa precarietà ha un impatto devastante sulle scelte delle persone e sul dinamismo della società. In Italia, poi, c’è un ulteriore problema che meriterebbe maggiore attenzione: il fenomeno del part-time involontario, cioè lavori sempre più frammentati. Se noi andiamo a guardare il numero di occupati, oggi abbiamo un livello addirittura superiore al periodo pre-crisi, come ci ricordano i politici di turno. Ma se trasformiamo le ore effettivamente lavorate dalle persone in unità di lavoro standard, le classiche otto ore al giorno, le unità di lavoro sono ancora inferiori di oltre un milione.

Che cosa significa?

Questo vuol dire che molte persone lavorano pochissime ore, generando il fenomeno dei cosiddetti working poor, persone che hanno sì un lavoro ma che non possono soddisfare le loro esigenze economiche. La situazione, quindi, è molto articolata e richiederà sempre più misure in grado di minimizzare gli impatti negativi sulle persone; nel contempo, attraverso adeguate politiche di formazione e politiche attive del lavoro, occorrerà stimolare la cosiddetta resilienza delle persone, cioè la capacità di reagire positivamente a cambiamenti che saranno sempre più frequenti.

Il lavoro è un fattore importante di inclusione sociale. Ma in Italia ci sono due fasce di popolazione, i giovani e le donne, che restano ancora troppo ai margini. Come si può invertire la tendenza?

Senza una crescita della produzione, e quindi una crescita della domanda di lavoro che più che compensi l’impatto della robotizzazione di massa, non c’è modo di soddisfare questo legittimo bisogno di lavoro da parte di giovani e donne. L’Italia è un Paese che cresce poco, in cui la produttività è bassa e non cresce adeguatamente, soprattutto nel settore dei servizi. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la legislazione del mercato del lavoro, in particolare dopo gli interventi degli ultimi anni, che hanno reso il mercato del lavoro italiano uno dei più flessibili al mondo. Il problema sta nel funzionamento dell’economia nel suo complesso. In più, abbiamo salari all’ingresso per i giovani molto bassi, differenze retributive di genere elevate a parità di mansioni, milioni di sotto-inquadrati e siamo molto indietro nelle politiche attive sul lavoro. Da ministro disegnai la “Garanzia giovani”, attuata dal governo successivo, la quale è stata la più grande iniziativa di politica attiva del lavoro mai fatta in Italia. E oggi pare non ci siano più le risorse necessarie per finanziarla ulteriormente. Infine, in Italia non abbiamo una politica per la formazione continua degna di questo nome e questo vale soprattutto per le donne. Quindi, sappiamo bene quali politiche servano per rilanciare l’occupazione, ma purtroppo non vengono messe in atto.

Oggi lei interverrà anche sul tema della sostenibilità. Perché è così importante?

I pilastri della sostenibilità sono quattro: l’economia, la società, l’ambiente e le istituzioni. La definizione classica di sostenibilità è quella per la quale una generazione riesce a soddisfare i propri bisogni senza che questo determini un effetto negativo sulla capacità della generazione successiva di fare altrettanto. Questo ha a che fare con la qualità dell’ambiente, con la qualità della società, con la capacità dell’economia di generare reddito con cui ripagare il debito contratto finora, con la capacità delle istituzioni di fornire soluzioni considerate appropriate.

Rispetto a questi pilastri che valutazione si sente di dare all’Italia?

È chiaramente in una situazione di non sostenibilità. Noi come ASviS abbiamo sintetizzato 140 indicatori prodotti dall’Istat in 17 indicatori compositi che rispecchiano i 17 Goal dell’Agenda 2030, stabilita dall’Onu e su cui l’Italia si è impegnata. Siamo indietro su molti di questi Goal: per esempio, sull’educazione stiamo migliorando, ma oggi siamo dove l’Europa si trovava dieci anni fa e questo dà la misura del gap che dobbiamo colmare. Abbiamo problemi gravi su tutti gli indicatori sociali, siamo indietro sugli indicatori ambientali, in particolare sullo stato degli ecosistemi; abbiamo invece andamenti più favorevoli in ambiti come l’alimentazione e la salute, ma restano differenze territoriali ancora profonde tra Nord e Sud. Quindi con i trend attuali non riusciremo a centrare gli obiettivi che ci siamo prefissi di raggiungere nel 2030. E in alcuni casi ci mancano pure le politiche necessarie per andare avanti.

Può citare un esempio?

La transizione alle fonti rinnovabili di energia. L’Italia, rispetto agli obiettivi 2020 stabiliti a livello Ue, è avanti, ma non ha la più pallida idea di come riuscire a fare i passi successivi verso un’economia decarbonizzata. Nel settembre 2017 è stata approvata la Strategia energetica nazionale, ma questo tema non mi sembra sia tra le priorità dell’agenda del nuovo governo.

Il crollo del ponte Morandi a Genova ha rilanciato il tema delle infrastrutture, che in Italia sono vecchie e fatiscenti. Sulle grandi opere, come la Tav, la Gronda o la Tap, c’è sempre una sorta di obiezione ambientale. Come si conciliano grandi infrastrutture, necessarie per il rilancio e per la crescita, con il rispetto dell’ambiente?

È uno dei dilemmi che un Paese deve affrontare. Fermo restando che è possibile, grazie alle nuove tecnologie, sviluppare infrastrutture a basso impatto ambientale; fermo restando che avremmo tantissimo lavoro da creare se prendessimo seriamente l’idea della transizione e della riqualificazione del costruito piuttosto che continuare a cementificare l’Italia come abbiamo fatto nei decenni scorsi; fermo restando che i costi del non fare manutenzione e del non mettere in sicurezza il territorio e gli edifici, soprattutto nelle zone ad alto rischio sismico e idrogeologico, sono maggiori rispetto agli interventi di prevenzione, è indubbio che l’Italia sia indietro rispetto a infrastrutture materiali e immateriali. Ma il tema, secondo me, è mal posto.

In che senso?

È chiaro che dobbiamo tenere le nostre autostrade in piena efficienza, ma dobbiamo anche sapere che il futuro si giocherà su mezzi di trasporto molto più puliti, e quindi si tratta di intervenire non semplicemente sui piloni di un ponte o sul manto stradale, ma di sperimentare sistemi orientati al futuro, che, per esempio, inseriscano nella sede stradale i sensori per le auto a guida autonoma. Serve, insomma, un cambio radicale nella progettazione.

Oggi il concetto di bene comune viene molto sbandierato, ma sembra anche molto astratto. Cosa è in concreto il bene comune e come lo si può perseguire?

In uno degli schemi utilizzati nel mio libro L’utopia sostenibile c’è il concetto di servizi del sociosistema, in analogia ai servizi dell’ecosistema, come, per esempio, è il lavoro che le api fanno gratuitamente per noi con l’impollinazione. Il Papa ci ricorda che la cultura che genera gli scarti fisici è anche la cultura che genera gli scarti umani. Se, dunque, gli scarti fisici impattano sui servizi dell’ecosistema, gli scarti umani – poveri, disadattati, emarginati… – hanno impatti analoghi negativi sui servizi del sociosistema, che sono la pace, la fiducia, la visione del futuro. Questi sono beni comuni immateriali, altrettanto importanti quanto i beni comuni materiali, della cui importanza ci rendiamo conto quando improvvisamente non li abbiamo più. E il fatto di assistere in questa fase storica al sorgere dei cosiddetti populismi è un esempio di come una crisi economica si sia trasformata in crisi sociale e in crisi istituzionale.

Per andare oltre il Pil dobbiamo, allora, cambiare modello di sviluppo?

Sì. Il pilastro del nuovo sistema è l’idea che lo sviluppo sostenibile, nella definizione che prima ho ricordato, sia l’unico sviluppo degno di essere realizzato. La vera utopia insostenibile e stupida è di pensare che l’attuale modello possa risolvere i problemi. Lei pensa che con una crescita economica, stimata da Ocse e Fmi nei prossimi 10-20 anni per i Paesi più sviluppati pari al 2% all’anno nella migliore delle ipotesi, si riassorbiranno i 120 milioni di poveri o di persone a rischio povertà che abbiamo in Europa? Lei pensa che con una crescita tale si potrà porre rimedio alle diseguaglianze, anche in vista di una robotizzazione di massa? Lei pensa che con una crescita di questo tipo e date le finanze pubbliche esistenti riusciremo a generare abbastanza risorse per la messa in sicurezza del nostro territorio? Ecco perché in tutto il mondo si discute su come trovare un nuovo modello di sviluppo. Ma il nostro Paese sembra incapace di mantenere l’attenzione su questi problemi importanti e passa il tempo dibattendo unicamente di emergenze. E questo è il modo migliore per trovarsi sempre in ritardo.

(Marco Biscella)

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