Si continua a fare confusione sulla ormai mitica nazionalizzazione della concessione di Autostrade per l’Italia ed è difficile approcciare la questione senza essere accusati di voler “danneggiare i piccoli risparmiatori” e “sudamericanizzare l’Italia”. Siamo completamente indifferenti alla carta di identità del gestore delle autostrade italiane; per quanto ci riguarda potrebbero essere gestite dallo Stato o dai marziani e noi saremmo contenti purché il costo per l’utente/contribuente sia ragionevole e la rete sia ben manutenuta. Fatta questa premessa, su questa questione ci sembra ci siano alcuni punti fermi.
Il primo è che le concessioni autostradali, così come sono state pensate e regolate in Italia, abbiano portato a due esiti che non sono augurabili per il “regolatore” di uno Stato “liberale”: il costo per l’utente di alcune tratte autostradali è esploso e si è generata una remunerazione elevatissima per il concessionario. Su questo ultimo punto c’è ampia letteratura e rimandiamo volentieri a quanto scritto, per esempio, da Giorgio Ragazzi.
Prendiamo il caso della Gronda di Genova per esemplificare il problema. Il rendimento garantito sulla concessione (l’8% reale pre tasse), la proroga della concessione dal 2038 al 2042 e l’inserimento di un valore di subentro di 5,7 miliardi di euro a fine concessione ha due conseguenze che non sono auspicabili per un regolatore che ha fatto bene il proprio mestiere: la prima è una remunerazione molto generosa con un rendimento che è doppio o triplo del costo del capitale (è sempre tutto debito), la seconda è quella di limitare fortemente la concorrenza.
Su questo secondo punto vale la pena spendere qualche parola in più. L’allungamento della concessione posticipa il ritorno della concessione in capo allo Stato e di conseguenza anche una nuova gara e l’inserimento di un valore di subentro rappresenta una sorta di “barriera all’ingresso” per chi si presenterà alla gara a concessione scaduta. La proroga delle concessioni è sempre stata guardata con grandissimo sospetto dall’Unione europea che, secondo noi a ragione, la percepisce come una limitazione della concorrenza.
I governi italiani negli ultimi due decenni hanno risolto il problema degli investimenti in infrastrutture autostradali facendosi pagare l’infrastruttura dai privati non solo in cambio di profitti fuori scala, ma di fatto rendendo lunghissime concessioni che erano nate per avere durate molto più contenute. Con l’approccio attuale possiamo tranquillamente prevedere che la concessione di Autostrade per l’Italia sia nei fatti eterna. Tra cinque o dieci anni si riproporrà da qualche parte lungo la rete autostradale l’esigenza di una nuova opera “straordinaria” che verrà pagata, indipendentemente dal traffico, con un aumento della durata per evitare rincari troppo elevati al casello. La concessione non ritorna mai allo Stato e non parte mai una nuova gara e nel frattempo continua una remunerazione a tassi che sono superiori di più del doppio al costo del capitale vero. Quando si è preferito agire sulle tariffe, senza allungare la concessione, si è prodotto un aumento assurdo dei pedaggi al punto che oggi muoversi su certe tratte autostradali del nord è diventato un lusso.
L’esigenza di sedersi al tavolo con i concessionari per fare due conti su profitti che hanno permesso acquisizioni transfrontaliere per cassa sbaragliando la concorrenza a suon di quattrini o di mettere a gara dopo durate ragionevoli le concessioni per rivedere l’impianto generale di schemi che sono stati un pessimo affare per il contribuente/utente italiano non è una cosa da populisti. Allo stesso modo non è da populisti pensare che sul crollo del ponte non possa esserci una responsabilità del concessionario che gestisce la rete soprattutto se a quei costi per l’utente/contribuente. In un hotel a 5 stelle si protesta per il minimo inconveniente. Come si possa ottenere una remunerazione più ragionevole in generale e, in particolare, risarcimenti “veri” per il crollo sul ponte è la vera questione di questi giorni.
Il Governo italiano ha tutte le ragioni per trattare duramente, ma deve avere bene in mente l’obiettivo finale: un risarcimento consistente per le responsabilità del concessionario e riportare in un alveo di ragionevolezza il rapporto rischio/rendimento dei concessionari autostradali italiani, per esempio ottenendo maggiori investimenti in manutenzioni, senza extra remunerazione, da qua alla fine della concessione. Dire che le “convenzioni” si rispettano sempre e comunque o che non si deve cambiare nulla per il mercato non può diventare l’alibi con cui passare sopra a crolli dei ponti o a remunerazioni che sono palesemente fuori scala. Altrimenti l’unica vera opzione per il Governo italiano diventa veramente la statalizzazione.
Se l’attività concessionaria è un business senza rischio e che trasforma i fortunati imprenditori in veri e propri fondi sovrani allora l’unica opzione economicamente sensata è pagare il concessionario una somma minimamente adeguata e riportare la concessione in seno all’amministrazione pubblica. Tra questi due estremi c’è una negoziazione seria sia sull’esistente, per esempio sulle manutenzioni, che per ribilanciare in modo significativo il rapporto rischio/remunerazione, sia un ripensamento profondo degli schemi di concessioni tra pubblico e privato. Senza questo lavoro si legittimano le soluzioni estreme. Il crollo dei titoli di Atlantia rimane l’ultimo dei problemi con le infrastrutture italiane a pezzi e i concessionari nostrani che con i soldi dei pedaggi fanno compere in Europa e fuori più e meglio dei fondi sovrani mediorientali.