Credo che tutti noi siamo stati impressionati dal video del crollo del ponte Morandi, proposto diverse volte in apertura dei concitati notiziari nei giorni scorsi. Girato da uno spettatore che voleva in fondo riprendere la pioggia scrosciante e trovatosi, suo malgrado, di fronte a una tragedia: quel grido “Dio santo, Dio santo…” ripetuto innumerevoli volte rimbomba ancora nelle nostre teste. Sono state dette diverse parole: subito dopo il crollo – o quasi – quel grido si è focalizzato come accusa politica contro l’irresponsabilità, contro l’errore umano e che non si può nel 2018 morire per il crollo di un ponte… Si è parlato di Dio, che, in queste situazioni, volenti o nolenti, viene sempre tirato in ballo, anche perché è l’unico che, in fondo, può interloquire con i superstiti e gli sfollati. Io credo che prima di qualsiasi risposta, anche religiosa, ci faccia bene risentire quel grido prolungato, di fronte al buio che rivela ogni spiegazione come insufficiente.



Questa posizione favorisce naturalmente anche qualche riflessione sull’accaduto e sul passato del nostro Paese. La lunga stagione delle privatizzazioni che si è aperta negli anni Novanta è stata condotta sulla base di un presupposto universalmente accettato: il pubblico è sinonimo di inefficienza, mentre il privato è, per natura, virtuoso. In tal modo, lo Stato ha ceduto diversi asset, stimolando, tramite politici di turno, varie cordate di (pochi) imprenditori che hanno acquistato aziende pubbliche incrementandone il debito (basti pensare al caso Telecom), oppure sottostimandone il costo.



Francamente, non conosco nel particolare la storia della famiglia Benetton e la vicenda di Autostrade per l’Italia: la vecchia “Società autostrade concessioni e costruzioni”, costituita negli anni Cinquanta per partecipare alla ricostruzione delle strade nel Paese dopo la devastazione della guerra, è stata privatizzata nel 1999 grazie a un nucleo di azionisti privati, oggi controllata da Atlantia S.p.A., a sua volta posseduta, per il 30% dal Gruppo Benetton, mentre il restante 70% è in mano al mercato, cioè investitori istituzionali, fondi comuni di investimento, Stati esteri, che detengono partecipazioni a scopo finanziario, inclusa la clientela retail, per ragioni di risparmio individuale. 



L’area grigia in mano al mercato (70%) è in fondo magmatica, difficilmente orientabile e così al Gruppo Benetton basterebbe anche molto meno del 30% per dirigere la società e incassare comunque lauti dividendi. In ogni caso, vuoi per i successivi assestamenti societari con le inevitabili cordate di azionisti e management, vuoi per l’eroismo del quieto vivere che sotterra i grandi problemi limitandosi a gestire l’ordinario per non compromettere eccessivamente l’intoccabile politica del dividendo agli azionisti (vero mantra dell’economia contemporanea a tutti i livelli!), qualcosa nel processo non ha funzionato e infrastrutture vecchie di 50 o 60 anni non possono opporsi all’unica forza davvero logorante: il tempo.

È quindi l’occasione per ripensare agli investimenti nelle grandi e piccole opere, visto lo stato penoso delle strade in Italia, soprattutto nei piccoli centri urbani, dove enti locali e province lamentano l’assenza di fondi per curarne la manutenzione, cercando nuove vie di connubio tra pubblico e privato e sottolineando il ruolo che possono avere certe tipologie di investitori istituzionali senza scopo di lucro, quali fondazioni e fondi pensione. Poter investire una parte del patrimonio direttamente nell’economia reale (e non tramite ulteriori veicoli di investimento che concentrerebbero soltanto una parte delle risorse nel nostro Paese e sarebbero comunque soggetti a logiche finanziarie e di mercato) potrebbe creare un sano equilibrio tra pubblico e privato, favorendo l’edificazione e la relativa manutenzione di edilizia e infrastrutture. A sua volta, ciò stimolerebbe la creazione di nuovi posti di lavoro, con le conseguenti ricadute su consumi, economia, spesa previdenziale e assistenziale, ecc.

Per fare questo c’è innanzitutto bisogno di una cosa tanto semplice quanto necessaria: la riscoperta dell’uomo, dell’infinita potenzialità del suo desiderio di bene, senza il quale il motore di ogni sviluppo è inceppato fin dall’origine. Per questo, tornando all’inizio di quanto ho scritto, è bene risentire in noi – tutti noi, non solo chi ha maggiori responsabilità politiche o economiche – l’eco dell’autore del video: potrebbe essere un punto di partenza e non il segno del crollo definitivo.