Revocare la concessione per rinazionalizzare autostrade? “Ridurre tutto all’alternativa Stato gestore o privato concessionario è una conseguenza della propaganda che si è avuta da Maastricht in poi sul tema privatizzazioni e servizi pubblici”, dice al Sussidiario Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano. Uno schema, quello dell’alternativa secca tra gestione privata e gestione statale, di cui il governo dimostra di essere prigioniero. Invece un’altra strada c’è e si trova scritta in Costituzione, in quell’articolo 43 che è ancora al suo posto. “I diritti concessori — spiega Mangia — non devono essere trasferiti necessariamente allo Stato. Possono essere trasferiti a società private non profit a base cooperativa che non rientrano nell’organizzazione statale”.



Professore, la revoca della concessione decisa dal governo è la strada giusta? 

Guardi, per sapere se una strada è giusta bisogna sapere dove si vuole arrivare. E su questo mi pare non ci sia ancora chiarezza, né da parte del Governo, né da parte della stampa nazionale che, salvo qualche eccezione, ha trattato questa vicenda in modi a dir poco discutibili. Chissà perché. 



Ma lei che ne pensa?

Io, per conto mio, parto da un presupposto e mi chiedo: una società privata che gestisce la rete delle infrastrutture autostradali in una situazione di monopolio naturale ha come suo primo interesse quello di far funzionare le autostrade facendo pagare il giusto, e magari evitando che 43 persone sprofondino nel vuoto alla vigilia di Ferragosto? O ha soltanto quello di produrre utili e valore aggiunto per gli azionisti, cercando di mettere a reddito secondo una logica giustamente aziendale il bene che le è stato affidato in concessione? 

Forse la seconda?

Credo che la risposta sia ovvia. Atlantia è una società privata che deve produrre valore. E produce valore gestendo autostrade. Il suo primo obiettivo non è curare l’infrastruttura: la cura dell’infrastruttura è un’attività doverosa, ma strumentale alla produzione di reddito. C’è di più. Lei ha visto la composizione azionaria di Atlantia?



Cosa vuole dirci di questo?

Si parla tanto della famiglia Benetton come massima beneficiaria dei lauti proventi garantiti da quelle strane concessioni che sono state prorogate fino al 2042 dal Governo Renzi e che sono state appena desecretate. Ma i Benetton hanno soltanto il 30% del capitale. Il sito di Atlantia indica un flottante del 45% del capitale sparso tra Stati Uniti (23,9%), Regno Unito (20,4%), Australia (9%), Francia (15%) e solo il 19% di quel flottante è restato in Italia. Ma la cosa divertente è data dalle partecipazioni di controllo. I Benetton hanno solo il 30%: il resto è sparso tra Blackrock (5%), Hsbc (5%), Gic Pte (5%), che è poi il fondo sovrano di Singapore, e CariTorino (5%). Basta guardare il grafico che ci mette a disposizione Atlantia per capire la situazione e smettere di ragionare come se Atlantia fosse una normale azienda italiana cui è stata affidato una spiaggia in concessione. 

Invece risponde a investitori che sono nelle più diverse aree del mondo.

Certo. Investitori per i quali la notizia del ponte crollato vale come una pagina di giornale relativo ad un evento realizzatosi in un luogo a 12 ore di volo. Insomma, come se noi leggessimo del crollo di un ponte a Seul o giù di lì. Ne leggiamo, ci dispiace e poi giriamo pagina. Al massimo ci preoccupiamo per il ritorno del nostro investimento.

E’ questa la logica che ha retto la gestione di Autostrade in questa età di privatizzazioni? 

Sì. E non solo di Autostrade. Certo che se amministro una struttura del genere e devo rispondere agli investitori che stanno a New York o Singapore, io mi preoccupo molto più delle mie trimestrali e magari del mio bonus, piuttosto che della manutenzione di un ponte, che mi riprometto di sistemare più avanti, spostando nel tempo la spesa di manutenzione. E’ tutto estremamente semplice e logico e rientra perfettamente nella logica aziendale cui ci si è rivolti nell’affidamento dei servizi pubblici dagli anni 90 in poi. Adesso cominciamo a vederne gli effetti. Non ci sono solo i morti di Genova. 

Che cosa intende dire?

Ci sono anche i morti di Pioltello in una carrozza ferroviaria alla periferia di Milano di cui nessuno, curiosamente, parla più. E, come Atlantia, nemmeno le aziende che gestivano la rete e i treni di Pioltello avevano problemi di cassa per intervenire. Non è che quella logica aziendale qualche limite ce l’ha? 

La concessione va revocata?

Sono molto stupito che si parli di revoca della concessione. In Costituzione l’articolo 43 è ancora lì, nero su bianco, e prevede la possibilità per lo Stato di espropriare, salvo indennizzo, con legge — una legge provvedimento – imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali e — guarda un po’ — a situazioni di monopolio. A rigore il Governo non ha bisogno di impigliarsi in tribunale nella ridiscussione dei termini della concessione: con legge espropria i diritti concessori di Atlantia relativi alla rete autostradale italiana e le lascia i diritti relativi ad ogni altra attività extraitaliana, su cui si è proiettata in questi anni con gli utili clamorosi fatti con i pedaggi italiani.

Quali prospettive avrebbe questa operazione?

Atlantia sopravvive, si tiene quanto ha guadagnato, fa i suoi affari in giro per il mondo e in Italia torniamo ad avere una rete autostradale gestita in modo che la produzione di profitto non vada a discapito di quella che lo stesso articolo 43 chiama “utilità generale”. Che è poi un modo elegante per descrivere l’interesse che ciascuno di noi ha a percorrere un viadotto senza che questo gli si sbricioli sotto i piedi. Dopodiché si andrà a litigare sull’indennizzo in Corte costituzionale e si continuerà in Corte di Giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma lo si farà da una posizione diversa. 

Ieri Giovanni Castellucci, intervistato da Repubblica, ha parlato dell’ipotesi di nazionalizzazione definendola in “controtendenza” rispetto a quanto avviene “nel mondo occidentale”. Evidentemente si parla di rapporti tra pubblico e privato. Cosa avviene nel mondo occidentale? 

E’ evidente che l’amministratore di Atlantia deve fare il suo mestiere e va capito. Ma l’Italia è andata in controtendenza rispetto all’Europa proprio quando ha dismesso e privatizzato tutto quanto stava in quel gigante economico del mondo occidentale che era l’Iri ed ha realizzando le più grandi privatizzazioni del mondo. Neanche in Gran Bretagna ai tempi della Thatcher si è fatto tanto quanto in Italia, dai tempi del patto Andreatta-Van Miert in poi. I risultati li abbiamo visti: i pedaggi più cari d’Europa, una remunerazione lorda garantita del 10%, rapporti privilegiati con i concedenti e morti per le strade. E’ questo che io trovo un po’ in controtendenza rispetto al mondo occidentale. Forse sarebbe il caso di uniformarci e capire che pubblico e privato vanno dosati luogo per luogo e caso per caso. 

Altrimenti?

Altrimenti facciamo pura dogmatica liberista: il privato è sempre bello e buono e il pubblico sempre brutto e cattivo. La verità è che ai tempi della gestione pubblica delle autostrade nessuno ricorda tragedie di questo genere, semplicemente perché non ci sono mai state. E questo dovrebbe dire tutto. Si dovrebbe capire che la gestione privata di un bene pubblico, tanto più se di questa importanza, è soltanto una delle opzioni a disposizione del potere politico. Non è una strada obbligata, a meno che il potere politico non abbia interesse ad appiattirsi sul privato come è avvenuto in Italia dal 1996 in poi, in un sistema di sliding doors tra controllato e controllore quanto mai inquietante.

Come giudica il riferimento di Castellucci a quanto sta scritto in Costituzione? “Sono i contratti e la Costituzione a chiarire quali sono le condizioni per una eventuale nazionalizzazione” ha detto l’ad.

Alla luce di quanto ho appena detto sull’articolo 43 lo definirei fantasioso. Ma bisogna capirlo. E’ in una situazione pessima e probabilmente inaspettata. E’ chiaro che mai avrebbero voluto una strage del genere. Volevano solo fare azienda. E questi, senza demonizzare nessuno, sono i risultati.

Il Sussidiario ha insistito molto sugli extraprofitti fatti da Autostrade, senza optare alla fine per un modello precostituito tra gestione statale e concessionario privato. Come commenta?

Stimo molto Annoni e sono sostanzialmente d’accordo. Però mi sembra che le opzioni possano essere ulteriori ed è la stessa Costituzione ad indicarcele. Ridurre tutto all’alternativa Stato gestore o privato concessionario è una conseguenza del dibattito — meglio, della propaganda — che si è avuto da Maastricht in poi sul tema privatizzazioni e servizi pubblici. Il Costituente aveva una prospettiva molto più ampia e non a caso nell’articolo 43, fra le altre cose, parlava di un trasferimento coattivo — per legge — a favore dello Stato o a favore di “comunità di lavoratori o utenti”. 

Se l’alternativa Stato-privato non è obbligata, questo cosa significa?

Vuol dire, molto semplicemente, che, in punta di Costituzione, quei diritti concessori di cui parlavo prima non devono essere trasferiti necessariamente allo Stato. Possono essere trasferiti a società private non profit a base cooperativa che non rientrano nell’organizzazione statale: comunità di utenti o di lavoratori che si organizzano e si danno una struttura per gestire un bene pubblico che gli viene affidato dallo Stato con una logica che è poi quella della cooperazione e della autoproduzione di servizi. Ci sono pagine di maestri come U. Pototschnig o G. Galgano che esplorano questa dimensione. Ed è questa la strada che bisognerebbe esplorare e approfondire per uscire dall’alternativa pubblico-privato come viene presentata oggi. Penso ad esempio ad una struttura tra la società cooperativa e l’azionariato diffuso che andrebbe progettata tenendo presente l’ispirazione originaria del Costituente, adattandola però ai tempi. Chi l’ha detto che tutto deve essere pubblico o puro profitto privato da distribuire ad azionisti in giro per il mondo? 

In concreto, cosa vorrebbe dire la soluzione non profit?

Le autostrade potrebbero essere gestite in forma cooperativa e nell’interesse degli utenti anziché nell’interesse di qualche azionista che sta in ufficio a Sydney o Singapore a vendere e comprare titoli. Una soluzione del genere radicherebbe sul territorio italiano la struttura di gestione e la sua responsabilità anziché disperderla in giro per il mondo; abbasserebbe automaticamente il costo dei pedaggi, trattandosi di una struttura non profit, garantendo il diretto reinvestimento degli utili di gestione; e da ultimo faciliterebbe enormemente l’attività di controllo che lo Stato dovrebbe esercitare nei confronti del gestore. Capirà che sarebbe molto più facile per il ministero avere a che fare con una cooperativa italiana piuttosto che con chi, pur stando in Italia, pensa a Blackrock o Hsbc. Va poi da sé che in parallelo dovrebbe essere ripensata la struttura degli organismi tecnici del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che, dagli anni 90 è stata sistematicamente ridotta. Tanto faceva tutto il concessionario privato. Ma sempre meglio che mettere in piedi da zero una struttura pubblica di gestione diretta dell’infrastruttura.

Che poi questo piaccia ai signori che stanno a Bruxelles è tutto da vedere. 

Infatti. Basta pensare a quello che stanno cercando di fare alle Banche di credito cooperativo proprio in queste settimane. Ma prima o poi bisognerà capire che la scelta tra Costituzione e Trattati europei è una scelta ineludibile, che prima o poi andrà fatta. L’articolo 43 è ormai dimenticato perché confligge con la logica mercatista dei Trattati e si fa finta che non ci sia più. Però in Costituzione c’è e nessuno l’ha mai abrogato. Ed essendo ancora quello italiano un ordinamento a costituzione rigida, mi rifiuto di credere che un Trattato internazionale, approvato con legge dal Parlamento, possa di fatto abrogare una disposizione scritta in Costituzione. Cosa facciamo? Diciamo che approvando i Trattati con legge ordinaria abbiamo abrogato un pezzo di Costituzione? E’ incredibile che si debbano dire queste cose. Ma a questo siamo.

Ieri sul Giornale Alberto Mingardi dell’IBL ha detto che l’intervento della politica tende a trasformare organizzazioni che dovrebbero fornire bene un certo servizio (dalla sanità alle banche) in organizzazioni che soddisfano le necessità del governante pro tempore”. Che ne pensa?

Discorsi del genere sono un ottimo esempio di quel liberalismo dogmatico di cui parlavo poco fa. E allora è meglio che queste organizzazioni soddisfino le necessità di qualche fondo d’investimento che si arricchisce su un monopolio naturale. Chi fa questi discorsi dimostra di avere un’idea davvero strana del liberalismo e della concorrenza. 

Ci spieghi meglio, professore.

Il punto è che il liberalismo, che in passato è stato una cosa seria e rispettabile, è stato trasformato da discorsi di questo genere in una caricatura. Wilhelm Röpke non è stato un grande economista, ma è uno dei numi tutelari di quell’ordoliberalismo che sta distruggendo un continente e che viene perennemente invocato da chi fa questi discorsi. Chissà se questi signori sanno che, fra molte altre cose, Roepke teorizzava anche le comunità di autoproduzione di beni e servizi. La verità è che il liberalismo — quello serio — ha sempre avuto una dimensione sociale che è stata cancellata dal discorso pubblico perché il liberalismo doveva ridursi a quello del Circolo Pickwick. E così è stato, grazie anche alla confusione tra ideologia liberale e banali interessi aziendali. Chi fa questi discorsi non difende il libero mercato o qualche altro valore alto o altissimo: difende solo dei profitti fatti in regime di monopolio privato. 

(Federico Ferraù)