Non vorrei che il can can mediatico suscitato dall’incontro fra il ministro Salvini e Viktor Orban oscurasse un altro grande momento diplomatico di questo governo, ovvero il quasi contemporaneo meeting fra il resuscitato primo ministro, Giuseppe Conte, e il suo omologo ceco, Andrej Babis. Motivo dell’incontro, al netto delle fregnacce sul futuro dell’universo-mondo e della collaborazione fattiva fra i due Paesi? Chiedere alla Repubblica ceca di prendersi in carico qualche migrante, della Diciotti e non solo, visto che anche la pista albanese sbandierata come l’uovo di Colombo starebbe perdendo di fattibilità. Risposta di Praga? Teneteveli.



Insomma, mentre il ministro dell’Interno in Prefettura a Milano faceva a pugni con il buonsenso, parlando di necessità di ricollocamenti secondari e al tempo stesso stringendo un patto d’acciaio con chi parla solo di confini chiusi, il capo del governo a Roma incassava un due di picche in piena regola non da Angela Merkel o Emmanuel Macron o Vladimir Putin ma, nientemeno, da Andrej Babis.



Signori, la plastica rappresentazione di cosa sia diventata l’Italia in ambito estero è sotto i vostri occhi: se prima contavamo poco, per colpa nostra e nostro deficit di credibilità politica, ora siamo a zero. Perché in nome delle alleanze alternative, prima abbiamo di fatto rotto ogni dialogo con il nucleo forte dell’Europa – Germania, Francia e Spagna – e poi, non contenti, siamo addirittura andati in aperta contestazione e contrapposizione, da un lato mostrandoci come volenterosa quinta colonna della campagna anti-Ue di Donald Trump a livello economico-commerciale, e dall’altro come cavallo di Troia di quella tutta politico-sociale del gruppo di Visegrad. I quali, ovviamente, all’atto pratico incassano, ma non intendono pagare dazio.



Certo, a livello di promesse e grandi proclami, sono i nostri migliori amici ma, signori, di fronte a noi ci attende la realtà. E non sarà un bel vedere: lo testimonia lo spread e la tensione sempre meno sottotraccia da parte delle (poche) teste pensanti del governo.

Vedi il ministro dell’Economia, il quale dal suo viaggio in Cina ha dovuto rendere noto che criticare il vincolo del 3% non significa in automatico non doverlo rispettare, netto contraltare rispetto alle parole del vicepremier e ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, il quale aveva parlato di sforamento dei parametri per finanziare il reddito di cittadinanza già nel Def in via di preparazione. E non basta, perché sempre Tria è stato chiamato agli straordinari, visto che ha dovuto non solo rassicurare sullo spread, il quale a suo modo di vedere tornerà nel suo range di normalità una volta che la manovra economica prenderà forma e verrà presentata nella sua interezza (un concetto che è credibile e soprattutto sentito da chi lo ha espresso, quanto il sottoscritto che grida “Forza Inter”), ma anche sulla questione debito pubblico post-Qe, ovvero chi assorbirà le emissioni nel 2019, quando la Bce si sarà ritirata dal suo ruolo di compratore di ultima istanza. Direte voi, gli Usa, no?

Ora, al netto delle panzane, il buon Tria è stato costretto a fare buon viso a cattivo gioco e dichiarare che la sua presenza in Cina non è finalizzata alla ricerca di un sostegno per i nostri Btp, ma sappiamo tutti che la realtà è un’altra: il ghiaccio sta cominciando a sciogliersi sotto i piedi del governo, per il semplice fatto che si avvicina il redde rationem con i temi che non consentono manovre di distrazione di massa come l’immigrazione. Ovvero, economia e conti pubblici. E che la situazione traballi, lo dimostrano due fatti.

Uno di poco conto, ma estremamente simbolico: nonostante la retorica del Viminale abbia spacciato per un giorno intero l’epilogo della vicenda Diciotti come un successo senza precedenti nelle politiche migratorie recenti del Paese, martedì sera a Rocca di Papa il principale partito di fiancheggiamento esterno del ministro dell’Interno, CasaPound, era in piazza a protestare contro l’arrivo dei cittadini eritrei che lo stesso Salvini aveva spedito nel piccolo centro alle porte di Roma, facendosi scudo con il fatto che a prendersene carico sarebbe stata la Caritas a sue spese (chissà chi garantisce l’8 per mille e le esenzioni previste dal Concordato alla Cei?).

Secondo segnale, molto più serio, soprattutto alla luce dei reiterati allarmi lanciati in tal senso dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti: ieri La Stampa in prima pagina rilanciava un retroscena in base al quale l’appello dello stesso Giorgetti a Mario Draghi per una prosecuzione del Qe, anche sotto altra forma, sia diventato di fatto la linea dell’esecutivo in materia. Quindi, il governo sovranista che sputa sull’Europa, minaccia di non pagare i contributi, mettere il veto sul budget e vede il suo azionista di maggioranza stringere patti con Viktor Orban (il quale, non so se lo sapete, ha frequentato l’università in Gran Bretagna grazie a una borsa di studio garantitagli da un ente legato alla galassia di Soros, somma ingratitudine) per mandare a carte e quarantotto l’Unione stessa, ha come linea politica per il servizio e la gestione del debito pubblico – il secondo peggiore dell’eurozona dopo quello greco – la speranza che Draghi cambi idea e in un modo o nell’altro continui a garantirci uno scudo anti-spread.

Ora, io sarò anche eccessivamente critico e pessimista rispetto alle prospettive di questo esecutivo e del Paese, ma voi vi sentite rassicurati, in vista di un autunno che si prospetta caldo a livelli di quelli di fine anni Settanta? Con quale faccia ci presenteremo al prossimo vertice europeo? Soprattutto, con quale faccia il povero Tria si presenterà al prossimo Ecofin, dopo le sparate estive dei suoi datori di lavoro?

Dobbiamo però ringraziare la nostra buona stella, perché il fatto che l’altro giorno il Financial Times abbia attaccato frontalmente e con una durezza senza precedenti il surplus commerciale tedesco significa che la Germania – dopo la breve pausa estiva – sta per tornare nel mirino anglo-americano, di fatto per una comunanza criminale (a livello economico, s’intende) di intenti e finalità: gli Usa vogliono colpire il cuore produttivo d’Europa per affondare la Ue, la Gran Bretagna spera che una Germania sotto attacco e spaventata, con alle porte il voto in Baviera, imponga condizioni meno dure per il Brexit, il quale con il passare dei giorni sta tramutandosi in un incubo sempre peggiore e sempre più realistico per i sudditi di Sua Maestà.

Quindi, appare abbastanza chiaro che la Bce non potrà stare con le mani in mano, se davvero Berlino finirà sotto attacco: ovviamente, esattamente come per i vaccini, l’interventismo dell’Eurotower, un whatever it takes in sedicesimi per salvare un’altra volte l’eurozona dal disfacimento, garantirà “immunità di gregge”, quindi copertura anche per il nostro debito. Ma sarà questione di mesi, non di anni. Perché, se anche Draghi forzerà la mano, il massimo che potrà fare – essendo in scadenza di mandato, oltretutto – è una replica di Operation Twist della Fed, ovvero uno swap sulle scadenze delle obbligazioni sovrane che la Bce ha in pancia (fra cui i nostri BTp), inglobando quelle più a lunga durata e garantendo così uno schermo protettivo almeno per la prima parte del 2019.

Ma è ovvio che, se si continuerà con questa linea di contrapposizione con la Ue e, soprattutto, a perseverare rispetto a progetti folli come il reddito di cittadinanza, la flat tax o l’abolizione della legge Fornero, anche la Bce potrà difenderci solo fino a un certo punto: se il mercato, nella sua interezza, giudicherà quelle mosse completamente antitetiche a un cammino di consolidamento dei conti e valuterà quell’azzardo non una coraggiosa mossa anti-ciclica ma per ciò che è, ovvero una ridistribuzione di fondi a scopo meramente elettorale e propagandistico in vista delle europee di maggio, allora sarà sell-off. E nemmeno Draghi potrà fare granché.

Anche perché una cosa è lo spread a 280-300, un’altra il differenziale a 400-450: perché la Bce i nostri BTp deve comunque contabilizzarli a bilancio e iscriverli in base a dei rating, seppur già ampiamente accomodati nei mesi. Se per caso arriverà un declassamento, per quanto in realtà la credibilità delle agenzie di rating sia pari a zero, allora sarà davvero tempesta perfetta. E si navigherà a vista. Ma non solo a livelli di titoli di Stato, anche di pensioni, stipendi pubblici e risparmi privati.

Attenti a sottovalutare certi allarmi, perché ci si risveglia come dopo la notte dell’eurotassa di Giuliano Amato. Chiedendosi come sia stato possibile. Ma, a quel punto, sarà tardi. Il canarino nella miniera di quanto sia grave la situazione? Occhio alle mosse di Macron nelle prossime settimane.