Con buona pace di Donald Trump che considera un aumento del denaro alla stregua di un ostacolo nella sua guerra a Pechino, è abbastanza facile prevedere che il prossimo 25-26 settembre la Fed alzerà i tassi. Una mossa obbligata, visto l’ottimo stato di salute dell’economia americana, ma anche un modo di attrezzarsi per far fronte a una recessione che, dopo nove anni di crescita, prima o poi arriverà. Considerazioni analoghe, pur nelle ambasce della Brexit, hanno convinto la Bank of England a riportare i tassi verso la normalità (cioè tasso di inflazione più andamento del Pil).



Intanto in Giappone si sta accendendo il dibattito sul superamento della pioggia di acquisti che in questi anni ha investito il debito pubblico e la Borsa di Tokyo. Cresce la richiesta di tassi più elevati ma anche di target di inflazione più elevati. È bastato questo a invertire il trend, sollevando pressioni al rialzo sui tassi nipponici a lungo termine. La conseguenza? Un primo accenno di fuga dei fondi giapponesi dai Bund tedeschi e dagli Oat francesi che, di riflesso, ha alzato il rendimento di tutti i titoli dell’eurozona, compresa la periferia.



Non è difficile prevedere che il trend, largamente previsto, sia destinato a proseguire ben oltre l’estate, amplificato per giunta dalle inevitabili reazioni alla fine del programma di Quantitative easing da parte della Bce. Non è per una machiavellica operazione contro il “governo del cambiamento”, dunque, che lo spread tra Btp e Bund sta riprendendo il volo. Inutile elencare i motivi di incertezza della congiuntura, a partire dalla “nebbia” che circonda la prossima manovra giocata probabilmente solo sulla richiesta di maggior flessibilità.

Purtroppo dietro questa richiesta, più o meno categorica, di aver più soldi disposizione (dimenticando che si tratterebbe comunque di un nuovo debito) manca una qualunque indicazione di politica economica di medio periodo che riesca a collocare il nostro Paese nello scacchiere internazionale, facendone un protagonista della ricostruzione dei legami finanziari e bancari europei e, ancor più importante delle scommesse, energetiche, logistiche e di filiera produttiva internazionale che non possono essere rinviate se si vuole dare al Paese un futuro che va assai al di là dello spread, ma investe il recupero della produttività che deve essere al primo posto dell’agenda del governo.



Ma, prima ancora di parlare di futuro, sarebbe il caso di non gettare alle ortiche i risultati raggiunti e che non sono affatto consolidati. I conti delle banche in uscita in questi giorni dipingono quadro a rischio non solo per lo spread. Goldman Sachs ha rilevato che “i 100 punti base di spread in più da maggio hanno cancellato l’enorme lavoro delle banche italiane nel primo semestre sotto due profili: da un lato tagliando le gambe al Cet 1 ratio, l’indice di solidità patrimoniale, dall’altro frenando molto la raccolta dei fondi comuni”. Non meno sintomatica la situazione di Poste Italiane: il Solvency Ratio della controllata Poste Vita è sceso dal 279% di dicembre 2017 al 185% al 30 giugno. Il taglio è stato causato dal calo dei prezzi dei titoli obbligazionari in portafoglio e dalle correzioni per l’aumentata volatilità. Le plusvalenze latenti sono scese da 8,2 a 3,3 miliardi di euro, conseguenza della forte dipendenza del portafoglio dai titoli di Stato.

Insomma, la crescita progressiva delle guasconate dell’esecutivo in materia di politica estera e di rivendicazioni verso l’Europa si accompagna a una drammatica crescita del rischio di finire succubi di troika o affini.