“Caro primo ministro…”. Il 5 agosto 2011 la Banca centrale europea inviava una lettera riservata a Silvio Berlusconi, firmata dal presidente Jean Claude Trichet e dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi (in attesa di sostituire Trichet). Faceva seguito a una riunione del consiglio direttivo dedicata a esaminare “la situazione nei mercati dei titoli di stato italiani”. Il mese precedente la differenza tra i Btp decennali e i Bund tedeschi a dieci anni aveva superato per la prima volta i duecento punti base (cioè il 2%) e la forbice continuava ad allargarsi. Oggi lo spread ha toccato i 270 punti base ed è aumentato di almeno 4 miliardi il costo per rifinanziare il debito pubblico; viene intaccato il patrimonio delle banche e delle assicurazioni che sono piene di titoli di stato (si calcola che siano stati bruciati 3 miliardi di utili); i fondi di investimento registrano una riduzione della raccolta netta di 56 miliardi di euro nel primo semestre; il mercato dei Btp è considerato “illiquido” dagli operatori della City; in base al sistema di pagamento Target2 gestito dalla Bce, 60 miliardi sono passati dalle banche italiane a conti presso altri paesi della zona euro. Tutto questo mentre il prodotto lordo è in netta frenata (dall’1,5% previsto all’1,1% tendenziale).



Sono fatti che riguardano la realtà dell’economia, non polemiche politiche. La situazione presenta molte analogie con quella del 2011. Finora, però, non risulta che la Bce abbia dedicato una riunione specifica al caso italiano. Sono diverse le condizioni generali (l’economia europea rallenta, ma non è in corso nessuna crac come quello della Grecia che dall’autunno 2010 scatenò l’allarme sui mercati). Sono diverse anche le condizioni politiche. La lettera di sette anni fa conteneva una preoccupata analisi e alcune raccomandazioni a cominciare da “una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme”: liberalizzazione dei servizi pubblici e professionali; riforma dei contratti di lavoro puntando su accordi a livello di impresa; “revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento”; misure immediate e decise per la sostenibilità delle finanze pubbliche (“un deficit migliore di quanto previsto, un fabbisogno netto dell’1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa”); una riforma delle pensioni (soprattutto anzianità e donne), anche se non così drastica come quella Monti-Fornero; una clausola di riduzione automatica del deficit attraverso tagli delle spese; una riforma della pubblica amministrazione.



Rivelata dai giornali, la lettera scatena una forte tensione nel governo tra la Lega, Berlusconi e il ministro del Tesoro Tremonti. Bossi si oppone soprattutto a toccare le pensioni. Berlusconi chiede una “frustata” all’economia con più spese per consumi e investimenti. Tremonti cerca di salvaguardare la tenuta del bilancio pubblico. A novembre Berlusconi si dimette, arriva un governo d’emergenza guidato da Mario Monti che aumenta le tasse e allunga a 67 anni l’età pensionabile. Stop. Toccherà a Renzi mettere in cantiere le riforme, a cominciare da quella su assunzioni e licenziamenti (abolizione dell’articolo 18). Ma nemmeno lui realizza i cambiamenti strutturali invocati dalla Bce (a cominciare dalle liberalizzazioni e dalla pubblica amministrazione), né riesce a ridurre il debito pubblico.



Il governo giallo-verde finora si è dedicato a smontare quel che avevano deciso i predecessori (ha rinviato anche la liberalizzazione del mercato elettrico che tra tutte è quella che più serve ai cittadini). Ma non ha osato reintrodurre l’articolo 18 dopo l’ondata di proteste tra gli imprenditori (anche quelli che hanno votato Lega e 5 stelle) per l’impatto negativo delle rigidità introdotte con il decreto chiamato “dignità”.

Sui conti pubblici, venerdì si è riunito un vertice ristretto che, secondo le ricostruzioni, non ha risparmiato tensioni tra i quadrumviri del governo (Conte, Tria, Di Maio e Giorgetti in rappresentanza di Salvini). Alla fine è prevalsa la cautela del ministro dell’Economia sostenuto dal Presidente del consiglio. In sostanza, si cercherà di tenere il bilancio in ordine e offrire un primo assaggio delle due misure per le quali si battono i gialli (il reddito di cittadinanza) e i verdi (la flat tax). Intanto, Paolo Savona cercherà le coperture per i 50 miliardi di euro per investimenti pubblici che intende proporre a settembre. Tria ha paventato l’aumento dell’Iva (12,5 miliardi di euro) per coprire la riforma fiscale. E ha sciorinato “la dolorosa”, come la chiamano gli spagnoli.

La prossima Legge di bilancio dovrà trovare almeno 26 miliardi di euro. Questa è la base di partenza. Il reddito di cittadinanza costerebbe almeno 17 miliardi. Si può ricorrere a un escamotage: mettere insieme quel che è già stanziato per il reddito d’inclusione varato dal governo Gentiloni, più altri trasferimenti assistenziali in modo da rastrellare tra i 6 e i 7 miliardi, e chiamare il tutto un primo passo verso la meta. Lo stesso vale per la flat tax: cominciare dalle partite Iva e dalle piccole e medie aziende aumentando il fatturato indispensabile per raggiungere il forfait del 15%. In sostanza, sarebbe la “flat tax renziana” rafforzata, rinviando a tempi migliori il taglio delle imposte per i redditi individuali e familiari. Quanto alla Fornero, che Salvini voleva seppellire in quattro e quattr’otto, non è previsto per ora di toccare le pensioni.

Conte e Treu hanno cercato di rassicurare i mercati. Ma alla Lega non basta, Giorgetti sbraita sui giornali, Salvini non sa cosa inventarsi per coprire la ritirata. I suoi “esperti economici”, come Borghi e Bagnai, battono tamburi di guerra. Di Maio non può essere da meno, e non mancherà di smentire il vertice di governo. Si riparte, dunque, dalla casella iniziale in questo gioco dell’oca che sta già costando caro agli italiani. “Non si può scherzare con lo spread”, ha detto Tria a Di Maio e Giorgetti. E non si può nemmeno “sparare sul pianista”.

Se la Bce prendesse oggi carta e penna, che cosa raccomanderebbe al Governo italiano? Di riaprire i cantieri delle riforme accantonate per accontentare le tante, troppe lobby alle quali leghisti e grillini hanno lisciato il pelo. Quanto alla politica di bilancio, al primo posto ci sarebbe la riduzione del debito pubblico, non solo con la crescita, ma portando il disavanzo strutturale (cioè al netto degli interventi congiunturali) il più vicino possibile al pareggio. È una linea che non piace ai giallo-verdi. Uno degli argomenti più usati sui media è che non si può tirare la cinghia, tanto meno adesso che la crescita rallenta. In realtà, la Bce consente di spendere per impedire una nuova recessione, la sua preoccupazione riguarda le uscite correnti ordinarie, non coperte da altrettante entrate. Tria lo sa. Giorgetti lo ha dimenticato? Di Maio non se ne preoccupa, e questo è un guaio.

Un’altra lettera della Bce non è prevista. È annunciato, invece, un cambiamento nella politica monetaria con la fine dell’acquisto di titoli. C’è qualcuno che medita di difendersi contrattaccando. E l’offensiva, questa volta, sarebbe diretta proprio a Francoforte. Si sente già dire che lo spread sale perché la Bce non compra più titoli (del resto ne acquista già meno) preparando una campagna d’autunno non contro gli speculatori (contro Soros, per intenderci), ma direttamente contro Mario Draghi. Se davvero questa idea, che per ora frulla in testa ai più esagitati e viene rilanciata dai troll sui social media, prendesse corpo, sarebbe il colpo finale. E lo spettro del 2011, ora in agguato, si materializzerebbe nello spazio di un mattino.