Il precipitare della crisi economico-finanziaria turca non vi ha certo colti impreparati, visto che ne parlo da almeno un mese. Il problema è che ora la questione sta davvero diventando rischiosa. E a livello sistemico, qui non siamo di fronte a uno scenario argentino, ma potenzialmente venezuelano: peccato che riguardi il Paese strutturalmente e strategicamente più importante negli equilibri fra Occidente e mondo islamico, Medio Oriente in testa e, particolare non da poco, membro Nato. Quello che sta subendo la Turchia è un attacco speculativo in piena regola, un 1992 in versione 2.0: martedì la lira turca ha perso il 5,5% sul dollaro, andando abbondantemente oltre la linea di supporto psicologico di 5 sul cambio con il biglietto verde (5,42) e da inizio anno la svalutazione è ormai del 27%. Il tutto, in un Paese le cui aziende hanno un’esposizione debitoria estera monstre, come ci mostra il grafico più in basso: parliamo di circa 340 miliardi lordi (circa 215 al netto degli attivi) e con un tasso di inflazione che punta dritto verso il 20%, partendo dall’attuale 16% abbondante. Iper-inflazione, insomma. 



Per carità, sia il Venezuela che il fantasma di Weimar sono ancora lontani anni luce, ma la crisi del 2008 e quelle sovrane del 2010 ci hanno insegnato che, in un mondo finanziarizzato e interconnesso ai massimi livelli, quello dell’effetto palla di neve che muta in valanga è un rischio tutt’altro che peregrino. Per cercare di tamponare la situazione, la Banca centrale ha bruciato altri 2,2 miliardi di riserve in dollari, ma i dati macro cominciano a far paura: da inizio anno, la Borsa di Istanbul ha perso il 17% e il decennale turco ormai paga qualcosa come il 20% di rendimento. Quello obbligazionario sovrano della Mezzaluna è il peggiore a livello globale, -38% da inizio anno contro il -36% dell’Argentina. 



 

E qualcosa sta pericolosamente avvicinando i destini dei due Paesi: se infatti Buenos Aires si è strangolata con le proprie mani a vita, accettando giocoforza il prestito record da 50 miliardi di dollari del Fmi (l’alternativa sarebbe stato un altro default sul debito, temo fatale), anche per Ankara comincia a circolare la voce di un prossimo pellegrinaggio con il cappello in mano dalle parti di Washington. Certo, entrambe le parti negano, al momento, ma la propensione autolesionistica dettata da ego ipertrofico e delirio di onnipotenza di Recep Erdogan potrebbe presto cambiare lo scenario, visto che il sultano ha un’avversione tipica dei despoti populisti per le politiche di contrazione monetaria e, dall’alto del suo potere (anche familistico, avendo piazzato parenti ovunque nei gangli vitali dello Stato), sta stroncando ogni richiamo interno alla necessità di un rialzo dei tassi di interesse. 



Inoltre, rimane sempre il vulnus di base: a esacerbare e far precipitare la situazione nell’arco dell’ultima settimana ci hanno pensato le sanzioni comminate verso soggetti turchi dal Dipartimento di Stato Usa relativamente al caso del pastore evangelico, Andrew Brunson, detenuto in Turchia. Un braccio di ferro che Ankara sta combattendo in maniera abbastanza suicida non tanto per il caso in sé, quanto come proxy del vero bersaglio grosso nel mirino di Erdogan da due anni: ovvero, Fatullah Gulem, il predicatore islamico auto-esiliatosi in Pennsylvania e che il presidente turco ritiene l’ideatore del fallito golpe del 15 luglio 2016. E come ci mostra questo grafico, le sanzioni Usa hanno accelerato e appesantito di molto la svalutazione della lira. 

 

Insomma, gli Usa stanno usando l’arma finanziaria ed economica per destabilizzare la Turchia. Di fatto, la logica del “segnale inviato”, infatti, è stata superata abbondantemente. Qui, ormai, siamo al ricatto. E questo grafico mette la situazione in prospettiva: fa parte – anzi, è la parte integrante – del report pubblicato martedì da Goldman Sachs, la quale fa notare che un ulteriore deprezzamento della valuta turca, esattamente in area 7,1 sul dollaro, potrebbe portare potenzialmente a un wipe-out del capitale in eccesso delle banche turche. Di fatto, crisi totale da erosione dei buffers. E, potenzialmente, difficile da gestire senza le maniere forti, un qualcosa che Erdogan ha più volte dimostrato di non disdegnare. 

 

Insomma, siamo di fronte alla minaccia nemmeno troppo velata di uno scenario di destabilizzazione di stampo iraniano, tutto basato sulla leva economica e, quindi, del malcontento interno per le condizioni di vita. Non a caso, in Iran è guerra nemmeno più per accaparrarsi dollari a cifre folli sul mercato nero, ma direttamente verso l’oro, il bene rifugio che tesaurizza le aspettative di crisi reali. E strutturali. Gli analisti non hanno dubbi: per evitare un potenziale default, Erdogan dovrà accettare l’aumento dei tassi di interesse, forti tagli alla spesa pubblica (solitamente il detonatore delle rivolte) e quasi certamente un intervento da quantificare del Fmi. La questione, come sempre in questi casi, sta nel timing. Per Jacob Kirkegaard, senior fellow al Peterson Institute for International Economics di Washington, l’epilogo di un programma di sostegno da parte del Fondo monetario è ineluttabile ma resta una domanda dirimente: «Quanto dovrà peggiorare la situazione, prima che Erdogan ceda e tratti con il Fmi? Io penso che debba peggiorare molto». 

E, infatti, non solo il presidente turco ha annunciato contro-sanzioni, quantomeno farsesche, verso gli Usa, ma ha rincarato la dose, annunciando che Ankara non terrà minimamente conto del diktat di Washington e continuerà la propria collaborazione economica e commerciale con l’Iran. Insomma, muro contro muro. Esattamente come quello che sembra intenzionata a condurre l’Unione europea, la quale alla minaccia ultimativa della Casa Bianca («Chi fa affari con l’Iran nonostante le sanzioni, non ne farà mai più con gli Stati Uniti») ha risposto con una durezza senza precedenti, visto che Federica Mogherini ha detto chiaramente alle aziende europee che cesseranno le loro attività con Teheran in ossequio alle sanzioni Usa che andranno incontro, a loro volta, a sanzioni di Bruxelles. 

Quanto è pericolosa questa situazione? Per l’Ue tanto. Per un semplice motivo: a capo della Commissione, l’organo che formalmente garantisce lo scudo legale alle aziende Ue contro le sanzioni, c’è lo stesso Jean-Claude Juncker che non più tardi di dieci giorni fa, in visita alla Casa Bianca, ha accettato di aumentare gli acquisti di gas naturale liquefatto (Lng) statunitense come fonte alternativa a quello russo, peccato che il primo costi 175 dollari ogni mille metri cubi contro i 120-130 di quello di Mosca. Il tutto, con un’aggravante: ieri la Germania ha dato ufficialmente il via alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2, destinato appunto a portare il gas russo direttamente in Europa, oltretutto bypassando l’Ucraina. 

Insomma, qual è la posizione ufficiale europea sul tema? Qual è l’agenda? Perché attenzione, Washington ha un chiaro piano in testa: da un lato, simulare la guerra commerciale con la Cina per “mistificare” lo sgonfiamento della bolla dei mercati senza che la gente precipiti nel panico tipo 2008 e, così facendo, spingere Pechino a un Qe in piena regola. Dall’altro, scardinare l’Unione europea, competitor commerciale troppo forte e scomodo in tempi di quote di mercato che si restringono, margini che si assottigliano ed euro che compete sempre più con il dollaro. E l’atteggiamento di Juncker da un lato, ma anche di Giuseppe Conte dall’altro, ci mostrano come gli americani puntino chiaramente all’utilizzo di quinte colonne per terremotare un’Unione già non solidissima. La Turchia, poi, rientra a pieno nella strategia di più ampio respiro della Casa Bianca. Il caos ad Ankara, infatti, garantirebbe a Trump di ridiscutere l’intero assetto della Nato, una questione che ha già avanzato più volte, minacciando di togliere lo scudo di difesa Usa se gli alleati non permetteranno il concretizzarsi di due condizioni: l’aumento delle spese militari (tutto warfare che andrà a ingrassare il Pil statunitense e i bilanci delle grandi corporations che reggono il Paese) e mano libera per la fase finale del programma di allargamento a Est, ovvero quei Balcani che fanno innervosire Mosca e che vedono l’Albania pronta a diventare il nuovo avamposto militare Usa, in caso Erdogan non scenda a più miti consigli. 

C’è poi l’arma strategica: se la crisi dovesse precipitare, lo stesso Erdogan potrebbe bussare prima alla porta dell’Ue che a quella del Fmi, minacciando la fine della politica di contenimento dei flussi di migranti e la riapertura della “rotta balcanica” via terra verso il Nord. Il tutto, a meno di due mesi dalle elezioni in Baviera, fondamentali per la tenuta del governo Merkel e tutte incentrate proprio sul tema immigrazione. Gli Usa hanno dichiarato guerra globale, perché vogliono che la partita del dominio futuro si ridimensioni a un faccia a faccia contro la Cina: tutti gli altri contendenti, vanno eliminati prima. Europa in testa, prima ancora della Russia.