Non ci sono soluzioni semplici per problemi complessi: se solo riuscissimo a condividere questa comune esperienza, potremmo tranquillamente ignorare gran parte di quello che è stato detto e scritto sul crollo del Ponte Morandi e forse cominciare a trovare una soluzione.
Cominciamo con la più classica delle spiegazioni: il ponte è crollato per l’avidità dei soci e degli amministratori di Autostrade per l’Italia; basterà sostituirli con persone oneste e disinteressate e tutto sarà risolto. È la tesi preferita dal ministro, ma che trova grande eco nei nostalgici dello statalismo di destra e di sinistra. Una spiegazione semplice, che però contrasta con un dato di fatto. La concessione tra lo Stato e Autostrade prevede che la manutenzione ordinaria, dettagliatamente definita nell’allegato F al contratto, sia pagata, per così dire, a forfait: risparmiare su questa procurerebbe un vantaggio (illecito) al concessionario. I lavori per rendere sicuro o addirittura sostituire il ponte non sono però “manutenzione ordinaria”, bensì straordinaria: quest’ultima viene pagata “a piè di lista”, riconoscendo al gestore un aumento di tariffe in grado non solo di ripagarne il costo, ma anche di remunerare i capitali impiegati. Non c’è, quindi, alcun dubbio che Autostrade avrebbe guadagnato di più a fare manutenzione straordinaria che a non farla.
L’accusa di capitalismo da rapina serve però a rilanciare la diatriba, mai sopita in Italia, tra “privato” e “statale”, cattivo il primo e buono il secondo; ecco, quindi, che la soluzione al problema è ancora una volta semplice: far costruire il ponte e gestire le autostrade dallo Stato. Anche in questo caso ci troviamo, però, di fronte ad alcune evidenze contrarie: ad esempio, il ponte crollato in Sicilia nel 2015, pochi giorni dopo l’inaugurazione, era stato costruito e gestito dallo Stato che, anche sui controlli del Ponte Morandi, non sembra sia stato severo e tempestivo. Ecco, allora, affiorare una sottile distinzione: quando si parla dello “Stato” non si parla, ovviamente, delle istituzioni e delle persone nominate da “quelli di prima”, ma dal nuovo Stato che sta sorgendo (e quelli della mia età, il “sole che sorge” lo ricordano molto bene).
La conferma di questo orientamento ci viene proprio dal ministro. “Non possiamo far costruire il ponte da quelli che lo hanno fatto cadere: lo faremo costruire da Fincantieri!” La soluzione, semplicissima, è lì a due passi: Fincantieri ha uno stabilimento proprio a Genova, meno di dieci chilometri dal Ponte. Peccato che non abbia mai costruito un ponte (si può consultare il loro sito), mentre tutto il mondo riconosce a un’impresa italiana il merito di aver costruito in tempi record il terzo ponte sul Bosforo, tra Europa e Asia: è il ponte sospeso più largo al mondo, il più lungo a essere dotato anche di ferrovia e quello con le torri più alte.
E poi: chi ha dato il potere al ministro di decidere chi deve costruire il ponte? Semplice: è stata avviata la procedura di “rescissione” della concessione. A parte il fatto che avviare la partenza per l’Australia è cosa diversa dall’esservi arrivati, non è vero neppure che la procedura sia stata avviata. L’articolo 8, infatti, dice che, qualora il concedente accerti un grave inadempimento, provvede a contestare il fatto, fissando un congruo termine entro il quale il concessionario dovrà giustificarsi. Trascorso questo termine senza risposta, o valutate non adeguate le risposte, il ministero “avvia il procedimento di cui all’art. 9: Decadenza della concessione”. La lettera di contestazione del disastro è del 20 agosto e dà 15 giorni per rispondere: entro il 4 settembre Autostrade dovrà rispondere, il ministero valutare e poi, eventualmente, avviare la procedura di decadenza. Si noti che, in caso di colpa del gestore, si parla di “decadenza”, mentre la “rescissione” è un atto unilaterale del Governo, che rompe senza motivo provato un contratto e ne paga quindi le conseguenze in termini di penali.
Quindi, fino a che Autostrade è il concessionario, a essa spetta il dovere e il diritto di far costruire il ponte: il ministero può controllare (più seriamente e più celermente) che le procedure di evidenza pubbliche siano pienamente rispettate, ma non può sostituirsi ad Autostrade. Che far decadere o rescindere una concessione per gestire 2.800 chilometri di autostrade per 30 anni non sia affare semplice e immediato lo capiscono anche (o forse solo) i bambini: allora, come compiacere l’opinione pubblica che attende un click?
Semplice! Grazie al Sussidiario sappiamo che si può espropriare e quindi basta una legge e tutto è risolto. Beh, salvo “indennizzo”, come scrive il giurista: è solo un piccolo inciso, ma che potrebbe avere tanti zeri quante lettere. Sempre che poi lo si debba pagare: “…dopodiché si andrà a litigare sull’indennizzo in Corte costituzionale e si continuerà in Corte di giustizia europea…”: semplice. Quante imprese pensate che rimangano in questo Paese sentendo ragionamenti simili? Non a caso Confindustria, che da tempo era assente dalla scena, si sta accorgendo di quali rischi corre con questo governo la libertà d’impresa; sarebbe ora che altri si interrogassero anche su altre libertà, altrettanto se non ancora più preziose.
Ora, immaginiamo pure la non profit (fatta da “uomini nuovi”) che riceve dallo Stato la gestione delle autostrade (nota bene: affrettarsi a uscire dalla Ue perché il diritto comunitario potrebbe rappresentare un intralcio): come troverà sui mercati finanziari i miliardi necessari per realizzare il piano di investimenti previsto? Niente più investimenti, cioè niente terzo valico per i treni da Genova (tutto su camion, tanto il ponte è nuovo), niente Gronda di Ponente (tanto alle code i genovesi ci sono abituati) e anche niente nuova tangenziale di Bologna? Oppure: provvederà lo Stato! E con quali soldi? Semplice: quelli prestati da coloro che, in Italia e all’estero, si fidano di chi oggi lo governa.
Mi rendo conto di essere andato lungo sulla pars destruens: la construens in un prossimo articolo.