Christine Lagarde richiamata da Washington alla presidenza della Bce. E Mario Draghi destinato in rotta incrociata alla direzione generale del Fondo monetario internazionale. L’ipotesi – come molte altre – è certamente prematura e può sembrare perfino poco realistica nel caotico avvio della campagna elettorale per le europee 2019. Ma dal grande rimpasto negli organigrammi Ue dopo il voto si comincia già a parlare seriamente.
Lo ha fatto pochi giorni fa il Financial Times, focalizzando naturalmente la successione a Draghi e accreditando l’ipotesi il prossimo banchiere centrale dell’euro sarà probabilmente un francese. In questo anche il quotidiano della City ha preso atto della prima mossa pesante sullo scacchiere, compiuta da Angela Merkel. Giocando con un certo anticipo, come sua abitudine, il cancelliere tedesco ha avallato l’entrata in campo di Manfred Weber come spitzenkandidat per il rinnovo dell’euro-parlamento: formalmente per il Ppe, di fatto come successore tedesco di Jean Claude Juncker al vertice della Commissione di Bruxelles.
Weber è’ un leader della Csu, l’inquieta gemella bavarese della Cdu: è un democristiano centro-europeo moderato, notoriamente in rapporti con il premier sovranista ungherese Viktor Orbán. E’ un kandidat – si dice già – incaricato di costruire un cartello elettorale “Ppe 2.0”: con a bordo, forse, anche la Lega italiana. (soprattutto se gli sviluppi europei dovessero accelerare in Italia una fusione fra Lega e Fi, con Silvio Berlusconi nel ruolo di garante verso il Ppe).
Weber naturalmente dovrà vincere il prossimo 26 maggio, ma già tra qualche settimana dovrà mostrare di saper far scudo alla Merkel e alla sua “piccola coalizione” nel delicato voto del land bavarese. Per diventare un innovativo capo dell’esecutivo Ue “post-Maastricht” dovrà prima arginare in casa gli estremisti di Afd, poi agganciare in un Ppe “largo” sia leader di governo confinanti come Orbán, Kurz, Salvini, sia moderati storici come i gollisti francesi. L’operazione di “europeizzazione” delle forze populiste si annuncia di grande respiro e ambizione, anche se la scommessa di realpolitik merkeliana suscita parecchio scetticismo: non sono pochi quelli che già intravvedono un “piano B”, più o meno d’emergenza. Che avrebbe ancora trazione tedesca: con la stessa Merkel direttamente in campo a Bruxelles. Per i mercati finanziari, tuttavia, l’esito prevedibile per Bce non cambierebbe: un francese all’Eurotower, otto anni dopo l’uscita di Jean-Claude Trichet.
Benoit Coeuré e François Villeroy de Galhau: questi i primi nomi smazzati da FT aprendo la “pista francese”. Il primo è attualmente membro dell’esecutivo Bce e nessuno, finora, è stato promosso da lì presidente; e poi nel 2015 l’economista transalpino è stato protagonista di un controverso caso di “fuga di notizie” sulla politica monetaria euro. Villeroy, invece, è da tre anni governatore della Banca di Francia e in quanto tale membro senior del “consiglione” di Francoforte. Vanta un impeccabile curriculum parigino (studi alla Polytechnique e all’Ena e poi una brillante carriera al Tesoro): è un potenziale clone di Trichet. Ma nel 2019 le credenziali tecnocratiche nazionali potrebbe non bastare più, anzi.
Già Draghi, nel 2011, ha portato a Francoforte un profilo nuovo, di banchiere centrale accreditato anche nella City, a Washington e Wall Street, a Pechino e negli altri gangli della finanza globale di mercato. E non c’è dubbio che l’eurozona che Draghi ha pilotato in mari tempestosi e inesplorati – spesso assumendosi responsabilità politiche di fatto – sia ormai molto diversa da quella costruita negli anni’80 e ’90 e inaugurata nel decennio che ha preceduto la traumatica discontinuità globale del 2008. Non solo per questo – sempre nella premessa politica che il quarto presidente della Bce avrà nuovamente passaporto francese – l’ombra della Lagarde si allunga già sulla scelta Bce, calendarizzata per l’estate 2019: di fatto il primo impegno della nuova governance Ue dopo il voto.
Avvocato presso Baker & McKenzie a Wall Street, poi ministro delle Finanze nell’amministrazione gollista Sarkozy-Fillon quindi direttore generale del Fmi: al di là del passaporto, Lagarde sembra avere pochi rivali su ogni fronte, non ultimo quello del gender (in sessantun anni l’Europa non ha mai avuto una donna in un top post) . Il suo atout principale sembra in ogni caso essere quello di Draghi: un’esperienza comprovata- e per molti versi unica – nel collocare sempre l’euro e gli interessi della Ue su uno scacchiere globale di multilateralismo economico-finanziario (non manca chi sostiene che la Merkel continui a frenare le ambizioni della Bundesbank sulla Bce per i rischi di irrigidimento della gestione interna ed esterna dell’euro).
Se la Lagarde dovesse spuntarla nella corsa alla poltrona di Draghi, la direzione generale del Fmi diverrebbe vacante proprio quando Draghi si renderebbe disponibile per eventuali nuovi impegni (e prima di diventare presidente Bce, l’allora governatore della Banca d’Italia era a capo del Financial Stability Board, un organo di collegamento strategico fra G20 e Fmi). La regola non scritta secondo cui l’incarico di Washington va a un europeo di alto rango (ministro o banchiere centrale) con il placet vincolante degli Usa appartiene a un ordine internazionale che sembra superato: alla direzione generale del Fmi guardano ormai da fuori del vecchio asse atlantico e il trumpismo soffia notoriamente contro l’Europa. Ma anche nel deep state Usa e nell’establishment finanziario cosmopolita non manca chi è al lavoro per contrastare avvitamenti isolazionisti o fughe in avanti traumatiche. Ad esempio Jerome Powell, il nuovo presidente della Fed, è nel board dal 2011, si è occupato fra l’altro di vigilanza bancaria post-crisi: è stato nominato da Trump ma non è un “trumpiano”. Conosce e stima Draghi al punto da aver copiato, pochi giorni fa, il celebre whatever it takes per segnalare la volontà di tenere sotto controllo l’inflazione. Il segretario al Tesoro, Steven Munchin, dal canto suo, è stato scelto dalla Casa Bianca nelle fila della finanza newyorchese tradizionalmente allevate dalla Goldman Sachs.
Se esistesse davvero un passaporto Ue confrontabile con quello Usa, Draghi sarebbe il primo a poter vantare di possederli entrambi. Subito dopo verrebbe Lagarde.