Sulla questione Autostrade e sulla possibile revoca della concessione pubblica sono state dette e scritte molte sciocchezze che hanno avuto l’effetto, involontario o volontario, di intorbidare le acque di un corretto dibattito, nel quale poter confrontare opinioni legittimamente differenti e le relative argomentazioni. Come già avvenuto in precedenza nel caso di Alitalia, i contrari a un maggior intervento pubblico hanno rispolverato il vecchio termine “nazionalizzazione”, contando sul suo valore negativo. Ma si può sul serio parlare di nazionalizzazione se lo Stato si riprende la gestione diretta della rete autostradale che è sempre stata di sua proprietà, avendola costruita nel tempo interamente con soldi dei contribuenti? Se in questo caso parliamo di nazionalizzazione, come dovremmo allora chiamare il caso in cui il proprietario di un’attività economica che ha dato in gestione a terzi decida di riprendersela? Forse dovremmo chiamarlo “esproprio”? È evidente che non si può proprio parlare di nazionalizzazione in relazione a qualcosa che è sempre stato statale e non è mai stato privato.
Un altro ragionamento fuorviante utilizzato dai difensori dello status quo e dunque anche, volendo o non volendo, dell’attuale gestore che non è stato in grado di prevenire il crollo del ponte Morandi a Genova, è il seguente: “Non è opportuno che lo Stato si riprenda la gestione della rete autostradale, viste le sue inefficienze”. E per rafforzare questa argomentazione si usa di solito citare l’Anas e le sue cattive performance, a cominciare dall’incapacità dimostrata nel caso della Salerno-Reggio Calabria. Questo ragionamento risulta attraente, ma solo sino a quanto non se ne evidenziano le implicazioni. Se non ci fidiamo dello Stato quando gestisce una rete autostradale, come possiamo fidarci dello Stato quando gli affidiamo l’istruzione dei nostri giovani, la salute dei cittadini, la tutela della sicurezza attraverso le forze dell’ordine, l’esercizio della giustizia, la difesa degli interessi nazionali nelle relazioni internazionali e tante altre cose? Si tratta in fondo di attività tutte più complesse rispetto a quella, piuttosto banale, di riscuotere i pedaggi autostradali e garantire le necessarie manutenzioni dell’infrastruttura. E inoltre, se il settore pubblico è così inefficiente da non poter prendere in carico i circa 3mila chilometri gestiti da Autostrade per l’Italia, come possiamo invece lasciargli in mano tranquillamente altri 22mila chilometri di strade e autostrade statali e oltre 230mila chilometri di strade regionali, provinciali e comunali? Allora per coerenza privatizziamole tutte.
Dopo l’inopportunità della “nazionalizzazione” e lo “Stato inefficiente” vi è una terza argomentazione utilizzata dai difensori dello status quo, i quali, e non è ancora stato messo in luce, sono di fatto sostenitori, consapevolmente o meno, del detto “Chi ha avuto ha avuto (i concessionari autostradali le loro concessioni), chi ha dato ha dato (gli automobilisti i loro alti pedaggi), scordiamoci il passato (cioè il ponte crollato, le sue vittime e i suoi danni)”. Il terzo argomento è l’alto risarcimento che lo Stato dovrebbe comunque pagare ad Autostrade per l’Italia, in base alla convenzione in vigore, anche nel caso di revoca per giusta causa. Esso è stato quantificato da diversi analisti e le stime sono comprese in un range che va dagli 8 ai 20 miliardi di euro, cifre che sono dello stesso ordine di grandezza di una manovra annuale di finanza pubblica.
Ne abbiamo già parlato in un precedente intervento. La convenzione sottoscritta nel 2007 tra Autostrade e Anas prevede due fattispecie di revoca della concessione: una per scelta unilaterale del concedente, ad esempio perché vuole ritornare a una gestione pubblica diretta, dunque non per giusta causa; la seconda per giusta causa, a seguito di gravi inadempimenti del concessionario. I due casi appaiono radicalmente diversi, tuttavia sono accomunati da una clausola unificante: in entrambi i casi il concessionario ha diritto a titolo di indennizzo al pagamento del valore attuale al momento della revoca di tutti i ricavi futuri sino al termine della concessione al netto dei relativi costi. Nella sostanza, pertanto, non vi è, dal punto divista dei guadagni del concessionario, differenza alcuna. Se lo Stato revoca deve immediatamente pagare ad Autostrade il valore attuale di 24 anni di profitti futuri.
A questo punto mi trovo tuttavia nella necessità di formulare al lettore del Sussidiario una domanda netta: in quali e quante delle testate giornalistiche più diffuse nel nostro Paese abbiamo potuto leggere dell’assurdità della clausola che prevede che lo Stato danneggiato dal concessionario debba risarcire il danneggiante nel caso di revoca per giusta causa della concessione? Forse mi sarà sfuggito, ma io non l’ho letto. E quanti giornali, consapevoli dell’illogicità di questa clausola, sono stati colti dal dubbio che essa sia in contrasto e dunque non ammissibile dal diritto, che ha la caratteristica di essere profondamente e coerentemente logico? A quanti giuristi i giornali hanno posto in conseguenza la domanda su cosa pensano di questa clausola? Anche in questo caso dovevo essere piuttosto distratto e non mi sono accorto. La clausola è logicamente insostenibile in quanto protegge sempre il concessionario dai corretti effetti economici negativi in cui dovrebbe incorrere a causa dei suoi inadempimenti e neutralizza completamente quella che dovrebbe essere la sanzione più grave, la revoca della concessione. Essendo illogica come può essere ammessa dal diritto?
In realtà non lo è, ma per dimostrarlo dobbiamo prima classificare da un punto di vista giuridico cos’è esattamente la convenzione di concessione. Essa non è altro che un contratto di diritto privato tra il concedente pubblico e il concessionario privato il quale regola le rispettive prestazioni e controprestazioni. In questo contratto il concedente mette a disposizione la rete di sua proprietà e assegna al concessionario il diritto di riscuotere e trattenere i pedaggi. In cambio, il concessionario si impegna al mantenimento in esercizio della rete e a tutti i lavori di manutenzione, ordinari e straordinari, che essa richiede. Tale contratto è regolato in primo luogo dal codice civile e la prestazione è classificabile come appalto (art. 1655 c.c.): “L’appalto è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”.
Nel caso specifico non si tratta di realizzare un’opera, bensì di fornire un servizio, quello del mantenimento in esercizio della rete e dell’esecuzione delle relative manutenzioni. Il corrispettivo è indiretto e consiste nel diritto a riscuotere i pedaggi in cambio della vendita agli utenti del diritto a percorrere l’infrastruttura con il proprio veicolo. Il servizio in favore del concedente deve essere garantito per tutta la durata della concessione, pertanto si tratta di prestazioni continuative per la quali, in base al disposto dell’art. 1677 c.c. si applicano anche, in quanto compatibili, le norme sul contratto di somministrazione.
Nell’ambito di queste ultime, l’art. 1564 c.c. regola la risoluzione del contratto stabilendo che: “In caso d’inadempimento di una delle parti relativo a singole prestazioni, l’altra può chiedere la risoluzione del contratto, se l’inadempimento ha una notevole importanza ed è tale da menomare la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti”. Più chiaro di così non potrebbe essere. La menomazione della fiducia non è altro che il timore di inadempimenti futuri, fondato su inadempimenti gravi effettivamente realizzati. Nel caso del ponte Morandi di Genova, il concessionario non ha adempiuto all’obbligo di effettuare i dovuti controlli di sicurezza e/o di eseguire le necessarie manutenzioni per preservare l’infrastruttura e impedirne il crollo e i gravi danni da esso prodotti. In conseguenza vi è giusta causa per una risoluzione senza alcuna penale.
Questa è la norma in grado di descrivere alla perfezione e regolare il caso specifico. Pertanto il concessionario Autostrade per l’Italia può essere facilmente licenziato dal Governo nonostante le clausole capestro illegittime inserite nella convenzione.